Seduto di fronte a me, mio fratello Tom si sta svegliando, si raddrizza il panciotto nero, controlla di non avere niente fuori posto. Nei quattro anni della nostra separazione è diventato molto alto, ha le spalle più larghe ma è sempre magro, con un ciuffo di capelli biondi che gli ricadono artisticamente sugli occhi azzurri e lo fanno sembrare più giovane dei suoi vent’anni. «Non fare quella faccia torva, Gemma. Non vai in una topaia. La Spence è un’ottima scuola, nota per educare incantevoli giovani dame».

Un’ottima scuola. Incantevoli giovani dame. Le stesse identiche parole pronunciate dalla nonna al termine delle due settimane trascorse a Pleasant House, la sua dimora nella campagna inglese. Mi aveva rivolto una lunga occhiata critica, notando la pelle lentigginosa, la ribelle chioma rossa, la faccia torva, e aveva deciso che una scuola preparatoria sarebbe stata la scelta più opportuna se volevo fare un matrimonio decente. «Mi chiedo come mai non sei stata rimandata a casa anni fa» aveva detto contrariata. «È risaputo che il clima in India non fa bene al sangue. Sono sicura che questo è ciò che tua madre desidererebbe».

Mi ero dovuta mordere la lingua per non chiederle come facesse a sapere quali erano i desideri di mia madre. Mia madre aveva voluto che restassi in India. Ero stata io a voler andare a Londra e adesso che c’ero, non sarei potuta stare peggio.

Tom aveva dormito per tre ore, mentre il treno avanzava tra pascoli verdi e collinosi e la pioggia sferzava stancamente i finestrini. Io invece avevo continuato a guardare dietro di me, da dove provenivo. Le calde pianure dell’India. La polizia che mi faceva domande. Avevo visto qualcuno? Mia madre aveva dei nemici? Che cosa ci facevo in giro per strada da sola? E che cosa sapevo dell’uomo che le aveva parlato al mercato, un mercante di nome Amar? Lo conoscevo? Lui e mia madre erano (e qui assunsero un’aria imbarazzata e strusciarono i piedi, alla ricerca di un termine che non risultasse indelicato) “conoscenti”?

Come potevo raccontare loro ciò che avevo visto? Non sapevo neppure io se crederci o meno.

Fuori dal finestrino del treno, l’Inghilterra è ancora in boccio. Gli scossoni del vagone mi fanno pensare alla nave che ci ha portato dall’India su mari agitati. La costa inglese che prende forma davanti a me come un avvertimento. Mia madre sepolta nel terreno freddo e ostile dell’Inghilterra. Mio padre che fissa la lapide impietrito – Virginia Doyle, moglie e madre amatissima – quasi a volerla perforare per cambiare il corso degli eventi con la sola forza del pensiero. E visto che non ci riesce, si ritira nello studio con la bottiglia di laudano come sua unica, fedele compagna. A volte lo trovavo addormentato in poltrona, i cani ai suoi piedi, la bottiglia marrone a portata di mano, l’alito con un odore dolciastro di medicinale. Un tempo era un uomo imponente, adesso era dimagrito, consumato dal dolore e dall’oppio. Io non potevo che starmene lì, inerme e muta, causa di tutto. Custode di un segreto tanto terribile da non osare parlare, per paura che fuoriuscisse da me come cherosene, bruciando tutti.

«Sei di nuovo con la testa altrove» dice Tom, lanciando un’occhiata insospettita.

«Scusa». Sì, scusa, scusa per tutto quanto.

Tom sbuffa, la voce che viaggia veloce sotto il respiro prolungato. «Non chiedere scusa. Smettila e basta».

«Sì, scusa» ripeto senza pensare. Sfioro con le dita l’amuleto della mamma. Lo tengo appeso al collo, un ricordo di mia madre e della mia colpa, nascosto sotto il rigido abito nero di crêpe che indosserò per sei mesi.

Attraverso il vapore che va diradandosi fuori dal finestrino, scorgo facchini che camminano veloci accanto al treno, tenendo il passo, pronti a sistemare sgabelli di legno di fronte agli sportelli per aiutarci a scendere sul marciapiede. Alla fine il treno si ferma con un sibilo e un ultimo sbuffo di vapore.

Tom si alza e si stira. «Andiamo, forza. Prima che vengano presi tutti i facchini».

 

§

 

Victoria Station mi toglie il respiro con la sua frenesia. Orde di persone affollano il binario. In fondo al convoglio, i passeggeri di terza classe scendono dal vagone in un intrico di braccia e gambe. I facchini si affrettano a prendere i bagagli dei viaggiatori di prima classe. Gli strilloni agitano in aria i giornali, urlando i titoli più sensazionali. Le giovani fioraie si aggirano con sorrisi più duri e consunti dei vassoi di legno che tengono appesi al collo delicato. Vengo quasi travolta da un uomo che si allontana frettolosamente con un ombrello sottobraccio.

«Mi scusi» borbotto, profondamente risentita. Lui non mi degna di uno sguardo. Quando do un’occhiata in fondo al binario, scorgo qualcosa di bizzarro, un mantello da viaggio nero che mi fa palpitare il cuore. La bocca mi si secca. È impossibile che sia qui. Eppure, sono sicura che sia lui, ormai scomparso dietro un chiosco. Cerco di raggiungerlo, ma c’è troppa folla.