Dopo tanti passi e tanta saliva, Lucilla venne depositata su un prato fiorito e il drago riprese fiato. Splendeva un sole da disegno dell’asilo. Le margherite e i ranuncoli erano gli unici spettatori e la brezza primaverile portava loro tutti i profumi della campagna. Lucilla si chiese ancora cosa trovasse la mamma di tanto spaventoso in quel drago verde come il prato e i baccelli freschi. Adesso che conosceva pure il suo nome le faceva quasi tenerezza e non vedeva l’ora di ascoltare la sua storia.

– Bene, ti stavo dicendo...

– No, no – lo interruppe Lucilla. – Prima voglio sapere come mai ti chiami Banana.

– È una storia molto lunga.

– Ma, se conosco il motivo per cui sei stato chiamato così, sarai sicuro che non ti prenderò più in giro. Chissà che storia complicata.

– Appunto io...

– Dai Banana, su!

Banana mugolò, ma quando guardò la bambina negli occhi non riuscì a dirle di no.

– D’accordo. – Sospirò. – Poi, però, ricordami che devo dirti una cosa molto importante, prima che tu entri nella mia pancia, va bene?

– Va bene.

E Banana acconsentì.

Gli abitanti dell’oasi protetta erano abituati a vedere depositare gli animali al cancello in ogni recipiente possibile, ma sicuramente non avrebbero mai dimenticato il giorno in cui l’iguana atterrò col paracadute.

Era un’iguana così piccola e magra che avrebbe potuto essere scambiata per un ramarro, ma il topo Potassio corse ad annusarla ed ebbe la certezza che si trattava proprio di un’iguana. Così si issò sul masso più vicino e cominciò a squittire, a tutti gli altri animali, che si era appena paracadutata un’iguana in pelle e ossa.

– Veniiite! Veniiite! È atterrata un’iguana! Cacio miiio! Cacio miiio!

Gatti e cani randagi si avvicinarono ansiosi al topo, e le testuggini, pian piano, cercarono di accostarsi sempre più. Le tartarughe Rucola ed Esmeralda tesero la testa dallo stagno, aggrappandosi alle foglie di loto, e altri carapaci verdi e lucidi emersero dalla superficie dell’acqua. Le bocche spalancate dei pesci rossi cominciarono a far bolle dallo stagno numero due. I serpenti allungarono il petto dalle teche dello sgabuzzino del Signor Pallino col Palino del Crocerossino e i pappagalli di fronte non mancarono di starnazzare a squarciagola: – Vuà! Vuà! Che disvgazia! Che disvgazia! Un’iguana col pavagadute! Vuà! Vuà!

L’iguana tremava ancora al ricordo del volo, cosa assai inusuale per la sua specie, e poco dava ascolto al chiacchiericcio che a mano a mano le si avvicinava. Bestie di ogni razza e dimensione le si affollavano intorno, e grida di ogni altezza, intensità e timbro si alzavano per tutta l’oasi. Ancora non riusciva a credere come il suo padrone potesse aver fatto una cosa simile.

Così cominciò a ricordare...

Credeva di essere stata desiderata, e di aver soggiornato benvoluta nella teca arredata con ogni comodità. Il ragazzino col faccione la guardava sempre con un grande sorriso attraverso il vetro e, a volte, la prendeva pure in mano e l’accarezzava con quelle manone calde e morbide che non avrebbe mai potuto dimenticare.

Poi, il faccione al di là del vetro era diventato sempre più piccolo e sempre meno sorridente e nessuna manona l’aveva più accarezzata. Inoltre, pareva che il vetro intorno a lei si stesse restringendo e una sensazione di soffocamento le metteva un’ansia addosso che le faceva sbattere la coda intorno di continuo.

La faccia al di là del vetro cominciò a guardarla con aria sempre più arrabbiata.

L’iguana non capiva. Il caro faccino di una volta la sgridava sempre. Così, quella grande tristezza si trasformò prima in tormento e poi in vera e propria rabbia nei confronti di chi le aveva causato un simile dolore.

Un giorno, accanto alla faccia, ne comparve un’altra. Non facevano altro che indicarle la testa e annuivano o negavano qualcosa che non poteva comprendere.

La teca si aprì e il compagno di una volta la prese sotto la pancia. Ma non c’era più il calore di un tempo in tutto quel maneggiare. Era come se volesse toccarla il meno possibile, mentre continuava a far osservare la sua testa all’altra faccia.

Non ha mai capito per quale motivo lo fece.

Fu qualcosa che salì dal profondo della sua pancia e le strizzò nella testa tutta la rabbia che aveva accumulato nell’ultimo periodo. Non poté trattenere quella cosa. Uscì dalla sua bocca e le fece azzannare il dito dello sconosciuto.

Ci fu uno schiamazzo che l’assordì e la fece stramazzare al suolo; poi un trambusto per tutta la casa che quasi la fece morire di crepacuore. Prese a correre in lungo e in largo senza sapere perché. Era tremendamente impaurita. Poi sentì delle mani e percepì il buio di una scatola in cui si ritrovò rinchiusa, sola, terrorizzata e senza più una speranza di essere amata dalla faccia.

L’iguana ricordava di essere rimasta nella scatola molto tempo. Avrebbero potuto essere mesi o cinque minuti.