In un tempo non ben precisato nella storia, un cataclisma chiamato “il Veleno” ha fatto regredire l’umanità a un’epoca di barbarie. Non nascono più bambini, le donne sono considerate al pari di animali e i rapporti tra gli esseri umani avvengono solo tramite baratti e violenza. All’interno di una chiusa sopra una casa costruita sulle palafitte vivono Padre e Figlio, poco lontano sta Aringo, l’unico a possedere un fucile con cui minaccia costantemente i due, mentre a guardia della diga c’è una donna cieca chiamata Strega. Figlio che è giovane è non ha visto il mondo prima della catastrofe, conosce solo un genitore che non ha alcun gesto d’amore nei suoi confronti e che ogni sera scrive un misterioso quaderno che gli è vietato anche sono guardare. Quando Padre improvvisamente muore finalmente si ritrova libero di lasciare il lago e parte alla ricerca ossessiva di qualcuno che sappia leggere, poiché vuole capire attraverso il diario cosa davvero il genitore provava per lui.

Dopo la presentazione al Taormina Film Festival, La terra dei figli arriva in sala in un periodo, quello estivo, tradizionalmente riservato più all’intrattenimento leggero che al cinema impegnato. Speriamo che ciò non vada a inficiare sul buon esito di una pellicola che, prima di tutto è un film italiano di genere, quello della fantascienza distopica, che merita tutto il successo possibile. Non è un caso che la pellicola sia tratta in modo abbastanza fedele dalla graphic novel, La terra dei figli di Gipi, il cui adattamento ha saputo non trasfigurare il materiale originale ma anzi, tradurlo in celluloide senza cadere in semplificazioni.

Da un punto di vista narrativo La terra dei figli, oltre ad essere un’emozionante storia di formazione è chiaramente una metafora dello scontro di due generazioni. Da una parte ci sono gli adulti, gli artefici del cataclisma che hanno permesso l’imbarbarimento, che fanno letteralmente di tutto per sopravvivere a discapito di chiunque e che pure si sentono i custodi di una morale preapocalisse in cui la brutalità, per lo meno all’apparenza, non la faceva ancora da padrone. Dall’altra ci sono i giovani, Figlio e Maria, la cui natura è la diretta conseguenza del mondo in cui sono nati, per i quali diritto alla vita non risiede nel fatto di essere innocenti o bambini, ma in un semplice ricambio generazionale. La terra dei figli già nel titolo dice senza peli sulla lingua allo spettatore, che i così detti “vecchi” da spazzare via sono più giovani di ciò che normalmente si pensa e sono coloro che sono stati capaci di perdonarsi qualunque cosa in nome del proprio bene a discapito di tutto e di chiunque.

Nel suo racconto crudo della realtà Claudio Cupellini mette una regia per nulla banale, con inquadrature che passano da campi larghi dove viene mostrato un mondo acquitrinoso dove il fango sembra arrivare ovunque, a primi piani strettissimi sui volti segnati dei protagonisti. Anche grazie a una fotografia livida che usa solo blu e grigi, il mondo di Figlio sembra perduto per sempre e non c’è un attimo in cui trionfi la bellezza. Eppure ci dice il racconto qualcosa sopravvive nella brutalità del mondo anche se non è quell’amore da “cinema” a cui siamo abituati.