Nella cittadina di Victory tutto sembra perfetto. I mariti vanno al lavoro nelle loro macchine scintillanti mentre le mogli li aspettano tutto il giorno tra pulizie di casa, shopping con le amiche e lezioni di ballo. La cena la preparano in abito da sera accogliendo il consorte con un drink in mano, felici di vederlo rincasare per stare insieme. In questa oasi nel deserto californiano, Alice e Jack sono la perfetta incarnazione dell’amore e non hanno alcuno scrupolo a mostrare quanto siano affiatati. Il loro motto è stare insieme in qualunque luogo la sorte li conduca, e quando Alice inizia a sentire che c’è qualcosa che non va in quel mondo idilliaco, cerca di mettere in guardia il marito. Lui così come tutti gli altri uomini, è impegnato in un lavoro top secret ideato da Frank, il guru che ha creato l’utopia di Victory e che sembra avere un particolare interesse proprio per Alice.

Chi cerca l’originalità in Don’t Worry Darling non la troverà. Le critiche che lo paragonano a un episodio di Ai confini della realtà e le accuse di già visto che chiamano in causa Matrix o The Truman Show sono vere. Il punto però di Don’t Worry Darling è che l’intenzione della regista Olivia Wilde e della sceneggiatrice Katie Silberman non è di proporre una storia originale, ma di dare uno sguardo diverso a temi che, post Me Too, hanno attraversato parecchie pellicole a Hollywood. Tanto per fare un esempio, un film come Men è  stato molto lodato per aver puntato il dito contro una società patriarcale, peccato però che sia scritto e diretto da due uomini. Se il messaggio è: i maschi sono egoisti e tutti uguali, il modo in cui viene detto non solo risulta finto ma è persino supponente.

Don’t Worry Darling invece non ha una sceneggiatura perfetta, alle volte accadono cose poco logiche nell’economia del racconto (il confronto tra Alice e Frank ad esempio), ma descrive con uno sguardo autentico cosa sono gli abusi subiti dalle donne usando il genere fantastico. Che cosa ci sia sotto al progetto Victory non è esattamente un twist inaspettato, lo spettatore non fa alcuna fatica a scoprirlo ben prima dell’epilogo, ma non è questo il punto. Non è un caso invece che il mondo idilliaco dove vivono i personaggi sia quello degli anni ’50, un’epoca d’oro per gli uomini ma un incubo per le donne. In questa visione maschilista Alice, così come tutte le altre mogli in una visione maschilista dovrebbero essere felici, e il sentirsi al sicuro avrebbe dovuto mettere a tacere ogni ambizione personale. Anche il tema dei figli è affrontato con originalità, sia come trappola quando Jack propone ad Alice di mettere su famiglia come se il solo fatto di avere un bambino potesse farla desistere da ogni ribellione, ma d’altra parte anche nella scelta di Bunny di sacrificare ogni cosa per loro.

Lo stesso amore che lega i due protagonisti e la sua evoluzione è tutt’altro che banale. La presa di coscienza di Alice che in qualche film l’avrebbe trasformata in un’eroina vendicativa, qui è assente ed è davvero evocativo l’epilogo con l’abbraccio del marito che per lei rappresenta allo stesso tempo  e, nonostante tutto, amore e catene. Florence Pugh è bravissima a dare credibilità al personaggio e funziona benissimo con Harry Styles, bello ma lontano anni luce dall’intensità di lei. L’unico che sembra fuori posto è Chris Pine ma d’altronde è nel costruire il personaggio di Frank che la sceneggiatura è meno convincente.

Don’t Worry Darling ha il pregio di essere un film di genere ma di non proporre il solito binomio bene/male ma di dare una visione delle emozioni più ambigua ed articolata, cosa che non gli impedisce però di prendere una posizione chiara.