Vero e verosimile, una riflessione

di Emanuele Manco

«Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia.»

William Shakespeare, Amleto atto I, scena V

Henry Fuseli, Amleto e lo spettro del padre
Henry Fuseli, Amleto e lo spettro del padre
La frase dell'Amleto può considerarsi a tutti gli effetti una richiesta di sottoscrizione di un forte patto con lo spettatore. Dalla voce dello spettro del Padre il Principe di Danimarca viene a conoscenza del complotto ordito da sua madre Gertrude e dallo Zio Claudio. Questo accadimento potrebbe anche definirsi come un elemento fantastico che irrompe in una vicenda dai toni realistici, ma tutto va inserito nella giusta prospettiva. Scritta tra il 1600 e il 1602, la tragedia arriva prima di qualsiasi codifica di un "genere" e prima che la mentalità illuministica releghi la sola idea dell'esistenza di un fantasma come irrazionale. La considerazione spontanea è che qualsiasi fenomeno al di fuori dalla comprensione umana all'epoca poteva essere assimilato alla magia, anche se già molti passi avanti, dalla rivoluzione copernicana in poi, erano stati compiuti per esempio nell'astronomia. Ma la strada verso la comprensione del mondo era sicuramente tutta da percorrere per quella che era la conoscenza popolare.

Shakespeare d'altra parte era un abile narratore, non un teorico. Scriveva di ciò che poteva avere forte presa sul pubblico, utilizzando tutti gli strumenti a sua disposizione.

Sulla credibilità di quanto si scrive si sono interrogati tanti scrittori e critici. Luigi Pirandello non fu il primo a porsi questa domanda, ma è il primo di cui abbia letto la "risposta". Egli nell'introduzione a il Fu Mattia Pascal racconta un fatto realmente avvenuto, e si domanda cosa accadrebbe se "un disgraziato scrittor di commedie abbia la cattiva ispirazione di portare sulla scena un caso simile."

La risposta è che per quanto lo scrittore potrà ingegnarsi, la storia raccontata risulterà sempre inverosimile allo spettatore. La considerazione di Pirandello è che la vita, in quanto vera per definizione, non ha bisogno di essere verosimile, mentre l'Arte ha necessità d'essere verosimile per sembrare vera. Quindi accusare un prodotto artistico di essere assurdo e inverosimile in "nome della vita" è definito dall'autore siciliano "balordaggine". E conclude "In nome dell'arte, sì; in nome della vita, no." 

E' una considerazione che apre il campo al concetto di coerenza in sè dei mondi inventati, che per sembrare veri devono essere rigorosamente concepiti, senza che l'autore cambi le regole del suo mondo in corso d'opera. Se viene rispettata questa regola, tutt'altro che semplice vedremo in seguito, lo scrittore ha più probabilità di coinvolgere il fruitore della sua opera, mediante un paradigma che è stato enunciato nel 1816 dal poeta e studioso critico dell'opera scespirana, Samuel Taylor Coleridge nel volume Biographia Literaria: la "sospensione dell'incredulità".

Essa implica la volontà del lettore (o spettatore nel caso teatrale) di ignorare i propri sensi, la ragione che gli dice che sta fruendo di un'opera di fantasia, sospendendo il senso critico, accettando l'opera per "vera". Lo spettatore sa che quanto sta vedendo o leggendo ha un senso nel mondo che l'autore ha costruito, e solo in quello. Idealmente autore e lettore si stringono la mano sottoscrivendo il "patto" per il quale finché dura la lettura del libro, o lo spettacolo è messo in scena, tutto quello a cui si assiste è vero. Al di fuori di quel mondo fittizio le regole sono altre e lo sanno entrambi.

Ma se invece un'opera è così ben riuscita che si arriva a una immedesimazione che porta a dimenticare quel confine, e ci porta ad aprire la bocca per lo stupore quando assistiamo a qualcosa di palesemente irreale? Succede che i nostri sensi assimilano ciò che è fantasia al mondo delle esperienze possibili.

Il nome che è stato dato a questa esperienza è "sense of wonder", ed è stato coniato per lo specifico del fantastico. 

Varie in realtà sono le definizioni della locuzione, a partire da quella dell'Oxford Dictionary of Science Fiction che lo descrive come "una sensazione di risveglio o di soggezione innescato da una espansione della propria consapevolezza di ciò che è possibile o dal confronto con la vastità dello spazio e del tempo, come proposto dalla lettura della fantascienza."

Se è vero che anche le creazioni letterarie ambientate nel cosidetto "mondo reale" sono fittizie e dobbiamo fare uno sforzo di volontà per accettarle, questo è maggiormente vero per le creazioni in mondi dove un uomo può volare o si dia per assodata l'esistenza di razze aliene o della possibilità di viaggiare nel tempo. Si differenzia il "sense of wonder", termine del quale non esiste una vera traduzione (è brutta assai la traduzione letterale, "senso del meraviglioso"), dalla sospensione dell'incredulità, non solo perché è più legata ai generi del fantastico, ma perchè il termine non indica solo accettazione, ma anche stupita meraviglia e immersione. L'argomento meriterebbe un approfondimento che però ci porterebbe fuori tema. Quello che si osserva scorrendo la sequela di definizioni del termine date nel tempo è che sia il patto con il lettore che il "sense of wonder" però sono sempre messi a dura prova. E' compito del bravo narratore gestirsi affinchè non si rompano gli equilibri. La definizione fu coniata durante quella che si definisce come "l'epoca d'oro" della fantascienza, gli anni dai '30 ai '50. Molti scrittori e critici della fantascienza sono concordi nell'affermare che le conquiste tecnologiche del mondo reale hanno minato alla base tale esperienza.