Dall’altro lato di un immenso oceano, oltre un’altissima catena di ghiacci, ignota agli abitanti delle altre terre, si trova la Terra di Dhrall.

È in questa terra che risiedono gli dei delle origini, coloro che a prezzo di un’enorme fatica crearono il mondo. Stanchi per l’impresa compiuta andarono a riposarsi, e da quel momento il fardello della creazione posò sulle spalle degli dei giovinetti. Trascorsero così venticinque millenni, poi le due generazioni di dei tornarono a scambiarsi i ruoli.

La Terra di Dhrall fu divisa in quattro Domini, uno per ciascun dio. Al centro, fuori da ogni dominio, rimase una terra desolata e priva di ogni bellezza. Qui vive un essere chiamato il Vlagh, signore degli insetti e dei rettili. Egli – o ella, visto che depone le uova da cui provengono gli abitanti della sua terra – interferisce con il naturale sviluppo delle specie, per renderle più adatte ai suoi scopi. Nascono così esseri ibridi, composti da parti di animali diversi unite nelle maniere più disparate, animati solamente dal bisogno di espanderne il dominio.

E all’avvicinarsi di un nuovo passaggio di poteri, quando gli dei delle origini bisognosi di sonno divengono sbadati e stanchi, e gli dei più giovani sono svegli solo in parte, il Vlagh decide di passare all’azione.

 

Questa, a grandi linee, la struttura del mondo de La saga dei sognatori, l’ultima opera firmata da David Eddings e dalla moglie Leigh Eddings.

Nel primo romanzo del ciclo, Gli dei delle origini, un composito gruppo di mercenari e nativi aveva salvato il dominio di Zelana dall’invasione delle creature del Vlagh.

Ora, con questo La grande dea, ricomincia tutto da capo. Salvato un dominio i nostri eroi sono di nuovo al punto di partenza, impegnati a salvare le terre di Veltan. E, non c’è da dubitare, i due prossimi romanzi saranno dedicati alle guerre nei domini di Dahlaine e Aracia.

Quattro dei, quattro romanzi, quattro guerre che in realtà sono una sola spostata in territori diversi.

Se con questa struttura ripetitiva i due autori speravano di aumentare l’enfasi e la drammaticità degli eventi, hanno sbagliato i loro calcoli. L’effetto è più quello, monotono, di rivedere episodi già visti, e di far procedere il lettore in maniera sempre più svogliata.

Se da una saga ci si aspetta generalmente un intrecciarsi di eventi che complicano sempre di più la situazione, fino all’inevitabile risoluzione finale – positiva o negativa – qui la consapevolezza che ciò che è già avvenuto finirà, più o meno, col ripetersi, toglie ogni interesse alle vicende.

Ai fini della conclusione della saga, il secondo romanzo potrebbe tranquillamente essere eliminato in toto, e la storia non ne risentirebbe minimamente. Ci sono solo un paio di spunti che probabilmente verranno sviluppati in seguito, il resto sono solo scenette di colore che non rivestono alcuna importanza.

 

A peggiorare la situazione di un libro di per sé inutile, c’è anche la sua struttura interna. Una buona metà dei capitoli inizia con il racconto della vita di uno dei protagonisti. Una vita non vissuta nella sua drammaticità, ma rivisitata in maniera retrospettiva giusto per far sapere al lettore chi è quel particolare tizio che compare nel romanzo già da un po’.

Il guaio è che facendo così la storia invece di andare avanti si ferma continuamente, e spesso procede all’indietro. Un personaggio dopo l’altro, peggio, una macchietta dopo l’altra, perché nessuno dei vari protagonisti ha un vero approfondimento psicologico. Ogni figura è piatta, monocorde. Non ci sono dubbi interiori, tormenti, mutamenti di idee.

Bianco o nero, senza nessuna sfumatura di grigio. Senza neppure la possibilità di pensare che esista il grigio, qualcosa di diverso dalla bontà assoluta – malgrado il fatto di dedicarsi ad attività non proprio nobili come la pirateria – o dalla cattiveria assoluta. Niente discese agli inferi, e niente redenzione.

Contadini e soldati, pirati e cacciatori sono indistinguibili l’uno dall’altro. Se da un dialogo si togliessero i nomi dei personaggi, sarebbe impossibile attribuire le battute all’uno o all’altro, tanto sono intercambiabili.

Se le storie dei personaggi sono inutili, e potrebbero tranquillamente essere cancellate, il cattivo della situazione è semplicemente ridicolo.

Un essere in grado di dare la vita e la forma in pochissimo tempo a migliaia di creature, e incapace di dare loro un minimo barlume d’intelligenza. Come gli eroi non fanno che ripetere, i loro avversari sono talmente stupidi da essere al di sotto di ogni livello di stupidità concepibile dalla mente umana.

E questo rende la guerra noiosa, con i protagonisti che passano il loro tempo a escogitare trappole nelle quali i loro nemici, inevitabilmente, cadranno. E se qualcosa non va esattamente come previsto dai prodi esseri umani, allora va ancora meglio.

Gli Eddings non hanno mai raccontato epiche battaglie dall’andamento incerto. I loro personaggi, malgrado i dubbi iniziali e le difficoltà incontrate, hanno sempre dato l’impressione di passare quasi come schiacciasassi sui loro avversari, ma in questo caso hanno esagerato. Qui i cattivi addirittura collaborano per farsi massacrare meglio, vuoi per la loro stupidità, vuoi perché le loro stesse caratteristiche fisiche aiutano i buoni, vuoi perché – è il caso di un secondo nemico – accecati da un’illusione.

Questi ultimi, membri di un clero descritto implacabilmente in modo negativo, sembra quasi siano stati inseriti per aumentare il senso del pericolo, mai troppo presente. E allora, se un solo esercito avversario che ha pure il vantaggio della superiorità numerica non basta, se ne crea un secondo, salvo poi manipolarlo in maniera da togliere ogni rischio.

 

Come ultimo tocco in questa 'equilibratissima' guerra, ecco intervenire i Sognatori. Figure strane, bambini dalla doppia identità allevati dagli dei, i cui sogni creano la realtà e che non si fanno scrupoli a uccidere là dove i loro genitori putativi non possono farlo.

Il loro intervento viene giustificato da un personaggio con la dichiarazione che i miracoli, finché sono a loro favore, vanno bene. Espediente fiacco, che forse cela una mancanza di idee per risolvere i problemi. Anche se nelle pagine finali con quel che era già stato fatto proprio non si sentiva la necessità della ciliegina sulla torta con l’intervento di Ashad.

 

Per quanto riguarda lo svolgimento vero e proprio della trama, in pratica per l’intero romanzo non accade nulla. I personaggi non fanno che parlare, progettare piani, prepararsi alla guerra che sanno imminente, ma lo scontro sembra non arrivare mai. E anche quando finalmente dovrebbe esserci un po’ d’azione, nelle pagine finali del libro, le scene sono descritte brevemente e in maniera molto distaccata, come se quegli eventi non fossero davvero importanti. La realtà della guerra, con orrori, sofferenze, senso del pericolo, dubbi, azioni eroiche o disperate, semplicemente non c’è, e tutto si risolve in una specie di scampagnata.

 

Anche nei precedenti romanzi David e Leigh avevano dato poco spazio alle battaglie, preferendo concentrarsi su intrighi qui impossibili, perché il Vlagh non è un nemico con il quale si possa giungere a un accordo, e il doppio gioco non avrebbe alcun senso. Resterebbe quindi solo quello che è sempre stato l’aspetto forte dei due coniugi: quello ludico.

Dalle scaramucce fra Belgarath e sua figlia Pol agli intrighi di Silk nel ciclo dei Belgariad, o al modo disinvolto di risolvere i problemi di Sparhawk e compagni in quello degli Eléne, le battute e le trovate dei vari personaggi sono sempre state il motore dell’opera, ciò che più di ogni altra cosa spingeva il lettore a voltare la pagina.

Purtroppo, anche in quest’aspetto i due autori hanno fallito. Le battute sono piatte e ripetitive, e mancano di quel tocco di genialità che le avrebbe potute rendere davvero significative. Il livello generale è quello di far dire seriamente, e quasi con invidia, da un ufficiale che un tale ha idee talmente brillanti che potrebbe risplendere nel buio. E questo dopo un’idea tutto sommato abbastanza ovvia.

 

Il fatto che complessivamente lo stile semplice renda la lettura scorrevole non aiuta a cancellare il senso di vuoto che emanano battute, personaggi e trama. Già in La redenzione di Althalus si potevano notare i primi segnali di una diminuita vena creativa da parte degli Eddings. In quel caso la trama cominciava a essere un po’ troppo sfilacciata, ma il tocco brillante degli autori rimaneva inconfondibile.

Qui, purtroppo, si perde anche quello, e ad alcuni personaggi, pacifici contadini che non sanno neppure cosa sia un’arma, non rimane che la consapevolezza che non è il caso di sentirsi troppo in colpa nello sterminare i nemici.

Chiuso il libro, non resta che sperare che i prossimi romanzi siano migliori.