Stanco.

Questo è l’aggettivo giusto.

Stanco. Stanco il corpo, stanca la mente. E stanca, fottutamente stanca, l’anima.

Cedendo alla spossatezza, l’Errante tira a sé le redini. Il cavallo obbedisce con un attimo di ritardo. Con sollievo, sospende il suo indeciso avanzare. Le fatiche fisiche del lungo viaggio e le conseguenti privazioni hanno sfiancato il povero animale al pari del suo padrone.

Un nitrito fiacco. Uno sbuffo liberatorio delle froge stillanti sfinimento. Uno scuotere del capo, in segno d’approvazione. Una piccola nuvola di polvere si libera dalla folta criniera corvina.

Tremante per le febbri che lo divorano, il cavaliere si lascia scivolare lungo il fianco del destriero. Una discesa caracollante: l'uomo atterra maldestramente sulle gambe, indebolite e malferme.

Cade. O meglio: crolla. Quasi fosse un corpo di cui la vita è stufa.

Le ginocchia, le mani, il volto. Dolore. Acuto e localizzato. Non sornione e diffuso come l’indolenzimento, da giorni endemico padrone di muscoli e articolazioni.

Una scossa d'adrenalina residua si risveglia a combattere le fitte. In qualche modo, era quello di cui aveva bisogno: lo stimolo adatto a combattere la devastante spossatezza.

Stentatamente, la faccia impolverata si stacca dal terreno rossastro. L’uomo rialza la testa, sputacchiando laterite, grumi di saliva mucosa e sangue. Tenta di pulirsi gli occhi, di liberarsi dall’insopportabile bruciore.

Vuole, deve, riposare. Da tanto tempo, ormai.

Eppure, qualcosa – qualcosa che talvolta è solo sensazione e talvolta coercizione che gli sgorga imperativa dal profondo – sta sempre lì a rammentargli severamente che non ha quasi più tempo. Ad instillargli un’ansia ossessiva, tumorale.

Non si può fermare, riposare davvero. Lo sa, senza comprenderne la ragione. Se si ferma a lungo, rischia di farlo per sempre.

Aggrappandosi alla staffa, e poi alla sella, si tira faticosamente in piedi. Fruga nella bisaccia, per trarvi l’ultimo frammento di carne secca. L’addenta avidamente, rimproverandosi per avere da giorni rinunciato a cacciare. Purtroppo, anche la caccia richiede tempo, e persino le privazioni della fame gli sono assai meno penose che contrastare la pressante e morbosa impellenza della cerca.

Con uno sforzo, s’impone un attimo di respiro. Di mangiare seduto su una solida roccia, piuttosto che ondeggiando sulla groppa di un cavallo allo stremo.

Quanto?

Quanto deve vagabondare, cercare... soffrire? Quanto, prima di riuscire a trovare quel ineffabile “qualcosa”, o magari quel “qualcuno” – nemmeno questo è certo -, così importante, fondamentale, che ha perso in un luogo e in un tempo altrettanto perduti?

E da quanto ha smarrito il suo mondo, la realtà alla quale di diritto appartiene? Giorni, settimane, mesi, anni, decenni? O addirittura secoli, millenni? Chi mai può affermarlo con certezza in quel luogo ove la certezza è bandita, quel universo metamorfo e arcano, senza leggi, sempre nuovo, sempre alieno…

“Sono pazzo?”

Una domanda ragionevole. Non nuova.

A volte teme d’esserlo, a volte lo spera. Almeno, sarebbe una spiegazione logica. Sente però che così non è.

Ma allora: dove sono tutti i suoi ricordi, dove il suo passato?

Un giorno – lontano quanto? – s’era risvegliato da un sonno profondo con la consapevolezza di non essere nato, bensì risorto senza essere morto, con la mente ingombra solo di confusione, di enigmi, di incertezze. Di paure…

Poi, qualche incalcolabile momento successivo alla sua resurrezione, all’improvviso una scintilla era brillata nel suo animo. Un comando categorico s’era infuso nella sua mente, dominandola con un imperativo che s’era rivelato tortura e salvezza nel contempo: doveva cercare, cercare!

Cosa, o Chi, non era importante. Al momento giusto, avrebbe capito. Forse.

Non l’oggetto, bensì l’azione. Ciò contava.

Aveva così iniziato la sua Cerca, incurante di tutto ciò che costantemente non capiva.

- Dove cercare? – aveva chiesto.

- Oltre le Montagne Eterne! – avevano sentenziato i glabri sacerdoti albini di Aks. E lui aveva risalito i ripidi sentieri ghiaiosi che portavano alle cime innevate. S’era inerpicato tra le rocce, aveva attraversato i maestosi ghiacciai eterni, valicato le insidie di gole spaventose. Per scendere verso nuovi confini.

- Oltre i Dieci Deserti! – avevano divinato gli Oracoli di Koltan. E lui s’era fatto bruciare la pelle dai raggi infuocati di due soli infuriati. Aveva respirato e inghiottito una sabbia tanto fine quanto amara, aveva patito una sete che mai avrebbe ritenuto possibile sopportare. Alla fine, aveva superato anche le ultime dune delle Terre Arse.

 - Oltre la Piana dell’Ombra! – avevano sospirato le anime dei morti nella Necropoli di Menis. E lui, incurante di azzardare la sfida a mille pericoli, s’era ritrovato a scontrarsi contro una ridda di feroci creature d’incubo, la cui sola vista poteva generare demenza. Era uscito vivo anche da quel luogo stregato e maligno, evocato da antichi negromanti, vittime dei loro medesimi sortilegi.