I Giorni del Sangue e del Fuoco
I Giorni del Sangue e del Fuoco

Naturalmente, il mio approccio alla traduzione è cambiato nel corso degli anni. All’inizio, essendo ancora incerta sulle gambe, non solo leggevo prima il libro, ma addirittura lo traducevo a mano e poi lo ribattevo a macchina per cominciare a sgrossare il lavoro prima della revisione definitiva. A mano a mano che ho preso sicurezza, ho cominciato a lavorare direttamente a macchina e poi, grazie a Dio, al computer, cosa che ha snellito di molto la procedura e i tempi. Ormai, dopo trent’anni di lavoro, non leggo neanche più in anticipo il libro, anche perché non sapere come va avanti rende più interessante il lavoro. Mi soffermo a leggerlo soltanto nel caso che sia scritto in modo particolare, con dei flashback o qualcosa che renda difficile capirne di primo acchito la trama. Quanto allo stile, di solito si fatica un poco durante il primo, al massimo il secondo capitolo, poi il lavoro prende “vita propria” e scivola via secondo la sua musica personale. Naturalmente, quando mi capita la seconda o terza opera di uno stesso autore è tutto più facile, perché lo stile mi è ormai noto, ed è come infilarsi un comodo guanto già allargato dall’uso. Quanto al leggere altre opere di un determinato autore, in genere mi capita di avere già in casa le opere che mi vengono date da tradurre, perché si tratta di autori che mi piacciono e che amo leggere nella loro stesura originale.

Sei una delle traduttrici di punta del fantastico, e con le tue traduzioni hai dato “voce” a decine di memorabili autori: Marion Zimmer Bradley (La Signora di Avalon); Charlaine Harris (Finché non cala il Buio), Raymond E. Feist (Il Signore della Magia); Cecilia Dart-Thornton (La Ragazza della Torre);  Lois McMaster Bujold (L’ombra della Maledizione), e un’infinità ancora. Dicci, come è stato il tuo approccio al genere?

Lo definirei un amore a prima vista. Molti anni fa, sempre intorno a quel fatidico 1979, mi è capitato di leggere “The Sword of Shannara”, che ho trovato molto piacevole. Era il primo fantasy che mi capitasse in mano, perché a quell’epoca leggevo prevalentemente mainstream, western, Alistair McLean e Star Trek. Una mia amica, la stessa per cui avevo tradotto il western, mi ha fatto presente che Shannara non era niente di speciale, solo un Signore degli Anelli in cui mancavano gli Hobbit. Questo ha stimolato la mia curiosità, così ho comprato il Signore degli Anelli, e quello è stato l’inizio di un amore mai tramontato. Da allora, in mezzo al resto, credo di averlo riletto almeno cinque volte, in italiano e in inglese. Quello che mi piace del fantasy è che ha riportato in auge antichi valori di onore, di coraggio, di rispetto, di trionfo del bene sul male, che erano un po’ quelli del western, genere ormai in netto declino, purtroppo, il tutto con l’interessante aggiunta della magia! Per questo, la branca del fantasy che prediligo è l’heroic fantasy, di cui era colonna portante il compianto David Gemmell, che è da molto tempo il mio autore preferito.

E’ vero il detto “tradurre è un po’ come tradire”? E quanto nella traduzione da un originale viene perso, o aggiunto, da un traduttore?

Domanda spinosa. Prima di tutto, tengo a precisare che io leggo i libri stranieri esclusivamente in inglese, proprio perché ritengo che una traduzione non possa materialmente essere mai uguale all’originale. Da questo punto di vista, chiuse le revisioni, non rileggo mai neppure i miei lavori, solo la loro versione in inglese. La differenza fra l’originale e la traduzione è purtroppo un male inevitabile, a causa della profonda differenza fra la struttura grammaticale e sintattica inglese e quella italiana, nonché per via del fatto che molte espressioni inglesi sono assolutamente intraducibili in italiano se non con un lungo giro di parole, e a volte neppure così. Spesso, mi capita di dover mettere delle note esplicative, perché preferisco lasciare un determinato termine in inglese piuttosto che snaturare una battuta di spirito o una definizione. Quanto all’aggiungere o al togliere, il fatto di aggiungere è inevitabile, purtroppo, come già si è detto, per forza di cose. Per quel che concerne il togliere, a meno che l’editore non mi ordini espressamente di tagliare l’opera, io cerco di tradurre fedelmente tutto ciò che l’autore ha scritto. Per come la vedo io, il traduttore è come un musicista, incaricato di interpretare un brano, e il suo dovere è quello di dare agli ascoltatori esattamente le sensazioni e le emozioni che il compositore voleva trasmettere con la sua musica.

Quali sono i tuoi hobby, il passatempo preferito, cosa ti piace leggere? E quali sono i tuoi autori preferiti?

Di hobby ne avrei a quintali, ma quello che mi manca è il tempo per coltivarli.

La copertina dell'edizione Nord di Il Signore della Magia
La copertina dell'edizione Nord di Il Signore della Magia

Fondamentalmente, il mio hobby principale sono i miei gatti, che occupano buona parte del mio tempo libero. Inoltre, mi piace curare il mio giardino e, se il tempo e le condizioni climatiche me lo permettono, andare a nuotare o a cavalcare, magari in compagnia di mia figlia Elisa. E leggere, naturalmente. Nella mia vita credo di aver letto un po’ di tutto, spaziando in tutti i generi. Attualmente, a parte il fantasy classico (Katharyne Kerr, Feist, Gemmell), sto leggendo ovviamente i libri di Charlaine Harris (mi sono appena procurata il nono volume, ma non ho ancora avuto tempo di leggerlo), e autori come Dan Brown e David Baldacci, che considero epigoni del grande Alistair McLean. Poi ci sono autori italiani, come Antonia Romagnoli e Fabrizio Valenza, che devo dire sono nuove leve non indifferenti. Il mio autore preferito, però, rimane David Gemmell, quasi a pari merito con Katharyne Kerr.

Qual è stato il tuo rapporto con gli artisti tradotti? Quali sono state le principali difficoltà e quali i punti d’incontro con loro? Chi è l’autore col quale hai lavorato meglio? Qualche aneddoto in particolare?

In genere, il traduttore opera chiuso nella sua stanza, e non ha molti contatti con gli autori. Io ho avuto la fortuna di conoscerne qualcuno, fra cui Greg Bear, Joe Haldeman, Brian Aldiss e, soprattutto, Julian May, di cui ho adorato la Saga del Pliocene e il Ciclo dell’Intervento, e Harry Turtledove, che mi ha onorato facendomi i complimenti per la mia traduzione della Saga della Legione. Li ho trovati tutti persone splendide, ed è stato interessante mettere a confronto l’ottica con cui io avevo affrontato la loro opera e quella che loro avevano usato nello scriverla, scoprendo che spesso coincidevano!

Un aneddoto riguarda Brian Aldiss e il suo Ciclio di Helliconia. Quell’opera mi aveva fatto penare in modo particolare perché, in un’epoca in cui ancora non c’erano i computer e si viaggiava a tippex ogni volta che si doveva cancellare un errore, lui aveva scelto tutta una serie di nomi astrusi, pieni di y, x, apostrofi e quant’altro, per i membri della popolazione dei Phagor. Basti dire che la loro luna si chiamava Yir’lich’or, o qualcosa del genere. Quando ho avuto modo di incontrarlo, a un convegno, gli ho fatto notare timidamente che quei nomi erano un pochino intricati per una poveretta che aveva dovuto riscriverli centinaia di volte. Lui mi ha guardata con un sorriso serafico, e mi ha risposto che, in effetti, anche a lui avevano causato qualche problema!

Che libro stai traducendo in questo momento?
La copertina di Finché non cala il buio, di Charlaine Harris
La copertina di Finché non cala il buio, di Charlaine Harris

Attualmente sono a due terzi di “Morto Stecchito” (Dead as a Doornail), il quinto libro del ciclo Southern Vampire di Charlaine Harris. Come i precedenti, è davvero divertente, con i personaggi in continua evoluzione e nuove figure che si vanno ad aggiungere a quelle preesistenti. Non voglio rovinare il gusto ai lettori, quindi non intendo aggiungere altro su come si sviluppano il libro e la saga (che io mi sono già letta fino all’ottavo volume compreso). Posso solo dire che la fantasia della Harris è davvero inesauribile, e che la storia, invece di calare di tono o di farsi ripetitiva, cresce di interesse e di complessità.

Spesso si pensa a un traduttore come a un “autore mancato” o a un “autore in potenza”. Hai mai desiderato scrivere un romanzo tutto tuo? L’hai fatto?

In effetti, continuare a lavorare sulle opere degli altri stimola la voglia di creare. Per quanto mi riguarda, però, forse si tratta del processo inverso, nel senso che io ho sempre desiderato scrivere, da quando mi ricordo, e tradurre è il modo in cui sono riuscita in qualche modo a vivere, per interposta persona, la meravigliosa esperienza di narrare una storia. La prima volta che ho tentato di scrivere qualcosa avevo quattordici anni, e naturalmente il risultato è finito da tempo nel cestino della carta straccia. Anni fa, quando facevo parte dello STIC (Star Trek Italian Club) ho in effetti cominciato a scrivere a livello amatoriale, sfornando parecchi racconti (uno dei quali “Come ti Senti” ha vinto un primo premio all’Italcon) e un romanzo breve (“Le Grotte di Arcadia”, classificatosi terzo a un’altra Italcon). Attualmente ho alcuni progetti nel cassetto, e sto cercando di elaborarli un po’ per volta, nei ritagli di tempo che il mio lavoro mi lascia.

Cosa ti affascina del fantasy e cosa non ti piace?

Come ritengo di aver già detto, la prima cosa che mi piace del fantasy sono i suoi valori, forse un po’ antiquati ma per me sempre validi: in esso ho un po’ ritrovato quello che un tempo mi dava il western, motivo per cui mi sono trovata spesso a dire che il fantasy, soprattutto l’heroic fantasy, è un western senza le armi da fuoco (anche se Gemmell le ha inserite, in “Un Lupo nell’Ombra”). Un’altra cosa che mi piace del fantasy è il fatto che spesso, a livello più profondo, tratta anche argomenti più ponderosi, sia di carattere religioso, o sociale, o politico. Tutto sta a come ci si avvicina alla lettura, e a quanto in profondità si spinge lo sguardo.

Non posso dire che nel fantasy ci sia qualcosa che non mi piace, al massimo, può non

La copertina di Morto Stecchito
La copertina di Morto Stecchito

piacermi come determinati autori si sono accostati al genere

Hai qualche modello come traduttore? Ci sono maestri in quest’arte tanto delicata che senti ti abbiano influenzato?

No. Sono essenzialmente un’autodidatta, in questo campo. Se c’è qualcuno che mi ha influenzata, quello è Gianfranco Viviani, che nei primi tempi della mia carriera ha avuto la costanza e la pazienza di “sgrossare” il mio stile, e di dargli quella impostazione che era necessaria per fornire un prodotto letterario degno di questo nome.

Un libro che ti piacerebbe aver tradotto è…

Inutile dirlo, Il Signore degli Anelli!

Per concludere, vuoi darci un consiglio di lettura?

Difficile dare consigli, perché l’approccio alla lettura dipende molto dal gusto personale. Inoltre, i tempi stanno cambiando, e così pure i generi. Io continuo ad adorare il ciclo di Deverry della Kerr, giunto al suo dodicesimo volume, che mi sentirei di consigliare a chiunque ami il fantasy classico. Fra opere più moderne, consiglierei indubbiamente i romanzi della Harris, che catturano l’interesse e divertono, come pure quello della Huff. Se poi qualcuno ama un horror a tinte più cupe, c’è Dan Simmons, di cui ho apprezzato moltissimo Danza Macabra, da poco riedito dalla Gargoyle.