Una giovane coppia, Katie e Micah, appena trasferitasi in un comodo appartamento in periferia, è terrorizzata da eventi misteriosi che si verificano per lo più di notte. Micah decide di montare una telecamera che riprenda nottetempo tutto quello che avviene nella loro camera da letto mentre dormono. L’incubo è appena iniziato.

Paranormal Activity è un film talmente derivativo e prevedibile nei suoi meccanismi estetici e commerciali, che è difficile parlarne senza rimasticare un intero carretto di indigesti cliché. Sicuramente è ancora più arduo farlo dopo qualche settimana di programmazione nei cinema, comunque premiata dall’affluenza di pubblico, dopo la generica ondata di delusione e dopo le molte dissertazioni firmate da critici noti o improvvisati. Di questo horror soprannaturale a budget microscopico, girato dal regista israeliano Oren Peli nella propria casa con soli quattro attori, è già stata sviscerata la parentela più o meno diretta con il più popolare (e riuscito) The Blair Witch Project. Si è abbondantemente sottolineato quanto la mitologia mediatica di quest’ultimo abbia contribuito a costruirne il culto e a prepararne la visione. Mitologia del tutto assente nel caso di Paranormal Activity, se glissiamo sul clamore sorto intorno alle presunte angosce  che il film avrebbe causato a Steven Spielberg, vero testimonial della pellicola e punta di diamante della sua campagna pubblicitaria. 

L’effetto più scontato di un film come questo, annunciato come la consueta onda di terrore che ciclicamente  spazza gli Stati Uniti, consiste

Questo matrimonio non s'ha da fare...
Questo matrimonio non s'ha da fare...
paradossalmente proprio nella delusione di chi si è precipitato in sala agganciato da una forma di promozione ormai polverosa, e la conseguente tempesta di critiche più o meno legittime, ma alla fine della fiera anche esagerate per un prodotto commerciale come questo. Si fa presto a riassumere l’equazione. In Paranormal Activity, come già in The Blair Witch Project, non esistono effetti speciali di nessun genere, e l’intera durata del film è volta a riscaldare la scena per il colpo emotivo finale, ovviamente troppo ellittico per poter colpire al cuore le masse accorse al cinema attirate dal tag “Non riuscirete più a dormire”. Completata la visione, si può affermare che il film di Oren Peli non possiede la corposità (e soprattutto il ritmo) della storia dedicata alla strega di Blair. Si potrebbe aggiungere che ne rappresenta, forse, il bonsai, e che risolve con piglio ingenuo elementi che nella pellicola di Myrick e Sanchez erano sviluppati in modo più convincente. Tuttavia, il fenomeno alla base di Paranormal Activity, così come le voci che hanno accompagnato il film fino alla sua uscita in Italia e le reazioni finali del pubblico, meritano una riflessione di altro genere.

I più maturi ricorderanno forse quando, nella prima metà degli anni settanta, L’esorcista di William Friedkin giunse sui nostri schermi dopo aver sbancato ai botteghini americani e aver causato (così si diceva)

...buonanotte?
...buonanotte?
reazioni terrorizzate e svenimenti tra il pubblico in sala. Le premesse commerciali del tempo non erano troppo diverse da quelle che hanno accompagnato l’uscita di Paranormal Activity.  Gli spettatori affamati di emozioni forti affollarono i cinema con un’arsura che si sarebbero rivista solo molti anni dopo con il Titanic di James Cameron. Ma la risposta italiana al temuto The Exorcist fu ben diversa da quella espressa dal pubblico statunitense. L’indemoniata più famosa del cinema fu accolta nel nostro paese da sonore risate e battute feroci. I momenti più celebri del film furono ridicolizzati e diventarono oggetto di infinite parodie. Secondo l’opinione emergente presso il pubblico italiano del tempo, L’Esorcista non era soltanto un brutto film, ma un film stupido, ridicolo e da dimenticare. Al di là di qualunque valutazione, è interessante vedere come, a distanza di tanti anni, quel film così vilipeso a tempo della sua uscita italiana, sia stato tanto rivalutato dagli appassionati di genere anche nel nostro paese, al punto da ricevere a volte la discutibile definizione di capolavoro. Ed è legittimo chiedersi se tra qualche anno questo non potrebbe accadere anche a Paranormal Activity, a distanza di sicurezza da aspettative eccessivamente gonfiate. Forse perché quando parliamo di racconti di spavento, quel che conta davvero non è l’effetto immediato, ma l’inquietudine residua che emerge nel tempo, radicandosi nell’immaginario. E a proposito di immaginario collettivo: è probabile che l’America, principale fabbrica di blockbusters e giocattoli cinematografici dalle possibilità visive strabilianti, possa dimostrarsi una culla di culture ed emozioni più variegata della nostra, capace di farsi turbare dalle ombre e dai sussurri quanto da rumorosi effetti spauracchio. Se film patinati, densi di effetti speciali e del tutto privi di spessore come Underworld e Van Helsing non suscitano lo stesso tipo di condanna senza appello da parte del pubblico italiano, siamo sicuri che questa “pavidità” tutta americana davanti a pellicole minimali come Paranormal Activity sia un sintomo di povertà?

Gettiamo la maschera. Il genere cinematografico del finto documentario, di cui The Blair Witch Project non è il prototipo, ma solo uno dei suoi

«Chi c'è di là?!»
«Chi c'è di là?!»
rappresentanti più significativi, ha sempre proposto allo spettatore l’illusione di essere testimone diretto di fatti pericolosi o angoscianti. Ma la verità spesso è un’altra, ed è lì che risiede la meravigliosa impostura. Il punto di vista falsamente oggettivo della telecamera amatoriale non serve ad aggiungere, ma a sottrarre. Quel che veramente desterà la curiosità di chi osserva non viene mai inquadrato, ma al massimo suggerito di sfuggita. La telecamera identificata con l’occhio dello spettatore non serve a mostrare quanto a porre dei limiti. Limiti che hanno l’unico scopo di sollecitare l’uditorio a partecipare attivamente al racconto e a riempire spontaneamente le tante zone oscure con la propria fantasia. In parole povere, i mockumentary horror low budget come Paranormal Activity sono un prodotto cinematografico molto particolare. Degli espedienti ludici volti a ridestare il bambino che è in noi, e a suscitare paura soprattutto con l’attesa e l’immaginazione personale.

Può darsi che Paranormal Activity sia un prodotto troppo americano per

Dormire... Forse sognare...
Dormire... Forse sognare...
lasciare davvero il segno nel belpaese, dove gli spiriti servono al massimo per fornire i numeri da giocare al lotto. Nello stesso tempo, è un film modesto, fortemente debitore a pellicole precedenti e con un’identità troppo debole per brillare di luce propria. I rimandi a Poltergeist sono notevoli, così come a The Entity (il romanzo di Frank De Felitta e l’omonimo film diretto nel 1981 da Sidney J. Furie), sia pure con connotazioni sessuali molto attenuate rispetto al modello. Le caratterizzazioni dei protagonisti risultano approssimative e la loro fede nel soprannaturale viene data per scontata in modo fin troppo ingenuo se non irritante. Nonostante tutti questi difetti di fabbrica, il film non manca di qualche momento suggestivo. Le lunghe attese per vedere che cosa entrerà dalla porta spalancata nel lato sinistro dello schermo sono davvero inquietanti. E quando, alla fine, in qualche modo, qualcosa, qualcuno entra davvero... Beh, dipenderà solo dalla sensibilità del singolo spettatore stabilire se ha scelto di vedere il film sbagliato. Sappiamo sin dal principio che in quella stanza finirà col succedere qualcosa di terribile. Tutto sta a vedere se quanto ci verrà mostrato saprà regalarci almeno un brivido. Ma per riuscire a provarlo c’è da pagare un prezzo adeguato. Una sospensione di incredulità ciclopica e la concentrazione di chi ascolta un racconto narrato a voce bassa intorno a un falò, pronti a sobbalzare al minimo rumore inatteso. Se la stupidità canonica delle majors non cadesse sempre nell’errore (già commesso con Quarantena) di inserire nei trailer la scena finale, o perlomeno le sequenze che la precedono immediatamente, sarebbe senz’altro meglio. Allora scopriremmo che l’intero film può essere inteso come il prologo a un’altra storia di orrore, magari più classica e già vista in pellicole più illustri. Il vero scopo della presenza demoniaca che perseguita la coppia è il punto di arrivo-partenza che sta alla base del racconto horror canonico. Ed è proprio in questo punto di svolta, al termine di una storia fatta solo di preparazione, che consiste la riuscita o il
Che freddo sul pavimento!
Che freddo sul pavimento!
fallimento di pellicole del genere. Per Paranormal Activity, poi, di finali ne esistono addirittura tre. Quello presente nell’edizione cinematografica italiana (suggerito, si dice, dallo stesso Steven Spielberg) e altri due (di stampo più orientale) che saranno reperibili probabilmente nell’edizione in dvd. Il cinema, dopotutto, è un gioco variegato e complesso. Chi non si esalta davanti al fenomeno tridimensionale e gode dell’atmosfera più che delle acrobazie visive, potrà trovare nel film di Oren Peli i suoi due bravi momenti di tensione. Paranormal Activity è un giocattolo dal meccanismo semplice, che fa leva sulle paure di chi soffre i più comuni disturbi del sonno. Di chi vive in appartamenti dai mille rumori sospetti e porta ancora con sé irrisolti timori infantili.

Insomma, una pietanza non per tutti, e dal sapore confondibile. Ma non per questo necessariamente da buttare.