Da tempo si ripete che il cinema di Hollywood non ha più idee e stia, ormai, cannibalizzando sé stesso. Lo vediamo ciclicamente con i remake e gli ennesimi nuovi capitoli di qualche franchise di successo che rubano spazio a film basati su soggetti nuovi.

Se questo si può dire del cinema mainstream, a maggior ragione lo si può dire anche del cinema horror. I remake dei classici degli anni ’70 e ’80 ormai non si contano più e con il ciclo di Non Aprite quella Porta, addirittura, siamo arrivati a qualcosa di molto simile al remake del remake. Che, poi, alcuni di questi ripescaggi siano anche di buona/ottima qualità, in realtà risulta secondario quando andiamo a fare il conto delle idee nuove.

Secondo alcuni, l’ultima grande novità nel genere horror è da imputarsi all’uso della telecamera a mano e alla trovata dei cosiddetti found footage (cioè i ritrovamenti di veri filmati poi rimontati), introdotta da The Blair Witch Project. In realtà anche Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez non hanno inventato nulla, bensì si sono limitati a riproporre qualcosa fatto da altri, anni prima, e ad impacchettarlo con un ottimo lavoro di marketing virale. Si deve, infatti, ai cosiddetti cannibal movie italiani degli anni ’70 l’introduzione di questi espedienti narrativi e di ripresa, al punto che il regista della più famosa di queste pellicole, Cannibal Holocaust, Ruggero Deodato, fu costretto a chiamare in tribunale gli attori coinvolti per convincere il giudice che erano ancora vivi e le scene di cannibalismo erano solo frutto di effetti speciali.

Siccome nel cinema, come del maiale, non si butta via niente, forse era solo questione di tempo prima che anche i cannibal movie vivessero una seconda giovinezza.Il ripescaggio, in questo caso, è ad opera di Eli Roth, già discusso, nel bene e nel male, regista di Cabin Fever, Hostel e Hostel 2. Era proprio da quest’ultimo film, datato 2007, che sembrava un po’ sparito dai radar (se si esclude il corto contenuto in Bastardi Senza Gloria di Tarantino), per cui i fan attendevano con estrema trepidazione il suo ritorno dietro alla macchina da presa con questo nuovo The Green Inferno realizzato nel 2013, ma che arriva da noi solo oggi, nel 2015.

I fan dei cannibal movie nostrani troveranno svariate citazioni lungo tutta la durata del film (che non vi sveliamo per non rovinarvi il gusto della ricerca), segno che Roth ha studiato attentamente l’argomento. E non potrebbe essere da meno, viste le sue tante dichiarazioni d’amore per il cinema italiano, tanto che la trama stessa di The Green Inferno vorrebbe essere in qualche modo anche un omaggio al filone degli anni ’70 e in particolare a Cannibal Holocaust. Alcuni studenti universitari newyorkesi si improvvisano attivisti per fermare il disboscamento della giungla peruviana; arrivati sul posto, il piccolo aereo su cui volano precipita nel mezzo della foresta e loro finiscono catturati dalle stesse popolazioni indigene che erano venuti a proteggere, destinati a divenire la portata principale del prossimo menù.

The Green Inferno
The Green Inferno

Roth si è dato un gran daffare per enunciare alla stampa tutti i sottotesti di critica sociale di cui sarebbe infarcito il film: <<Voler aiutare altre persone lontane da noi nasce da un buon proposito, ma alla fine si trasforma nel desiderio di sentirsi a posto con la propria coscienza>>, quindi sottolineando l’ipocrisia di chi è convinto di cambiare il mondo solo condividendo un video su youtube o mettendo un “like” su Facebook. Tematiche simili, di critica alla società occidentale, erano proprio alla base di Cannibal Holocaust e l’impressione è che Roth cerchi di darsi un tono tentando di adattare al giorno d’oggi il messaggio della pellicola italiana. In realtà le cose non funzionano del tutto: nella pellicola di Deodato il messaggio è fin troppo esplicito, ma, forse proprio per questo, arriva chiaro e forte allo spettatore e diviene, a tratti, meta-cinema. Nel caso di The Green Inferno, invece, sembrano solo sovrastrutture create a posteriori con ben poco o nulla, nella storia e nei dialoghi, in grado di giustificarle. Solo in un paio di battute da parte di Alejandro, il capo degli attivisti, emerge qualcosa di più, ma è ben poca cosa, sparso in un mare magnum di input contraddittori (visto che in altri frangenti, invece, il messaggio del film sembra esattamente l’opposto).

Se sotto il profilo del meta-testo The Green Inferno non riesce a esprimersi al meglio e a lasciare il segno, purtroppo non va meglio negli altri ambiti. Roth è divenuto famoso soprattutto per i due Hostel, che hanno portato a nuovo livello il concetto di gore e di voyeurismo dello spettatore (quelli sì, ricchi di meta-testo), al punto da generare un nuovo sotto-genere dell’horror, il torture-porn, eppure questa sua ultima pellicola non è neanche particolarmente splatter. Sempre per fare un confronto con i film da cui trae spunto, quelli italiani erano decisamente più estremi (anche al di là delle vere uccisioni di animali di Cannibal Holocaust) e, a tratti, avevano pure degli effetti speciali migliori e più credibili.

Inoltre, Roth delude anche sul suo stesso terreno: quello del grottesco. Cabin Fever è da molti considerato un piccolo gioiellino soprattutto per lo humor nero, un po’ kitsch, di cui è condito, tanto da esser divenuto una sorta di marchio di fabbrica del regista. In The Green Inferno, però, le trovate kitsch sono meno frequenti e meno incisive del solito, qualche risata la strappano, ma più per la stupidità della scena, che per l’ironia in sé. L’unica, forse, che veramente funziona, è quella della marijuana e della fame tossica (ma anche qui non vogliamo anticiparvi troppo), ma si tratta di comicità di bassa lega, più che di grottesco, e a parte quello non c’è molto altro da segnalare.

Nessuno degli attori, infine, sfodera una prestazione da Oscar, colpa probabilmente anche di personaggi piuttosto piatti e bidimensionali. La protagonista stessa, Justine (interpretata da Lorenza Izzo), è appena accennata e si dà più spazio al descriverla come figlia di un importante membro dell’Onu che a chi sia lei realmente e quali i pensieri, le idee, che guidano le sue scelte. Possibile che dall’oggi al domani una studentessa universitaria si imbarchi in un viaggio intercontinentale per mettersi davanti a della gente armata di mitra, solo per aver sentito da lontano un tizio parlare in mezzo a un prato? Eppure così come comincia il film, così finisce, senza che di Justine scopriamo granché. L’unico personaggio un po’ più approfondito è quello di Alejandro, che si scopre essere più sfaccettato di quanto potesse sembrare all’inizio e che, lui sì, avrebbe potuto portare a fare un discorso un po’ più articolato a livello di messaggio, ma tutto viene liquidato in fretta e rimane limitato a un paio di fugaci battute.

The Green Inferno
The Green Inferno

Non c’è, dunque, proprio nulla di buono in questo film?

In realtà di buono c’è molto, ma poco ha a che fare con la pellicola in sé. Ci riferiamo alle ambientazioni: The Green Inferno, infatti, è stato girato davvero dove è ambientato, cioè nella giungla peruviana. I paesaggi che i protagonisti attraversano mentre risalgono il fiume sono meravigliosi, da togliere il fiato. Così come bellissimo è il villaggio in cui vengono condotti e la tribù che ci abita, si tratta infatti di un reale villaggio indios e molti dei suoi abitati si sono prestati a fare le comparse nel film. Roth ha affermato di essersi ispirato, per le riprese, più allo stile del Werner Herzog di Aguirre Furore di Dio e Fitzcarraldo che al taglio maggiormente documentaristico, da found-footage, di Deodato in Cannibal Holocaust. Dichiarazioni decisamente ardite, eppure ci sembra che, almeno in questo, qualcosa di buono l’abbia fatto.

Per concludere, The Green Inferno segna il ritorno al cinema di Eli Roth, un ritorno a lungo atteso dai fan e dagli appassionati dell’horror splatter. Le attese erano molto alte, sia per via del genere di film proposto (un nuovo cannibal movie), che per la curiosità di vedere come lo avrebbe re-interpretato il regista statunitense, non nuovo a stupire il pubblico. Il risultato è un film tutto sommato piuttosto canonico, che non lascia il segno e non si distingue dalla massa come, invece, nel bene o nel male, avevano fatto i precedenti lavori di Roth. Forse alle nuove generazioni apparirà come qualcosa di nuovo e sconvolgente, e il regista avrà colpito nel segno ancora una volta, ma per gli appassionati di horror di lungo corso il rischio è di trovarsi di fronte una minestra riscaldata.