In passato, marzo tendeva a essere un periodo fiacco per il cinema. Tra la feconda stagione natalizia e l'euforia dei mesi estivi, la primavera ospitava spesso i film dal basso profilo che altrimenti sarebbero stati schiacciati dalla concorrenza. Ora questa tendenza sembra sempre più abbandonata, soprattutto grazie a veri e propri blockbuster quali il Kong: Skull Island di cui mi appresto a parlare.

Il gigante della foresta – Trama

1973, i nuovi successi spaziali U.S.A. hanno permesso alle organizzazioni governative di scoprire un'isola inesplorata sulla quale il professor William Randa (John Goodman) ipotizza arbitrariamente possano esistere creature mostruose capaci di confermare le sue ipotesi accademiche. Nel pieno della Guerra Fredda, gli Stati Uniti organizzano in fretta e furia una spedizione che mappi il territorio sconosciuto prima che l'URSS possa notare a sua volta l'anomalia geografica, Randa viene quindi affiancato al belligerante colonnello Preston Packard (Samuel L. Jackson) con annesso plotone, al cacciatore James Conrad (Tom Hiddleston) e alla fotoreporter Mason Weaver (Brie Larson).

Uno stormo di elicotteri sorvola la vergine foresta violandola con una serie di cariche esplosive atte a creare sismi che ne rivelino i segreti sotterranei, ma il minaccioso approccio poco piace a un gigantesco gorilla indigeno che reagisce violentemente a quello che vede come un attacco in piena regola al proprio dominio. Militari e civili finiscono col rimanere appiedati in mezzo alla giungla, la loro unica salvezza è affidarsi alla folle guida di Hank Marlow (John C. Reilly), un pilota della seconda guerra mondiale precipitato sull'isola venticinque anni addietro, e raggiungere in tempo il punto d'estrazione a nord dell'isola.

Il trionfo di King Kong – Regia

Il regista Jordan Vogt-Roberts ha messo su una gran bella squadra tecnica, scomodando Larry Fong (300, Watchmen, Super 8) per la fotografia e lasciando le briglie del montaggio a un trio specializzato in colossal e blockbuster (Bob MurawskiRichard PearsonChristian Wagner). Proprio in queste due categorie il film splende. L'immaginario creato rimanda senza pudore ai film sulla guerra del Vietnam (da Apocalypse Now a Platoon), stravolgendo l'approccio stereotipato col quale solitamente ci si approccia ai monster movie ed evocando nello spettatore un approccio innovativo ai temi trattati.

Le iniziali scene in elicottero sono tra le più belle di tutta la pellicola, sia per l'azione distruttiva che per alcune geniali scelte sceniche. Un bobblehead di Nixon, per esempio, viene trasformato in potente metafora delle condizioni psico-fisiche della spedizione, proiettandosi sul pubblico con il suo chiassoso oscillare. La forza di questa scena specifica e di molte altre ancora è dovuta, oltre che alle inquadrature, a dei tagli studiatissimi e suggestivi, perfetti nei tempi. Che sia la transizione tra rumore e silenzio o il passaggio da un elicotterista che precipita a uno scienziato che fa colazione, i pezzi si incastrano con precisione o, perlomeno, con una strepitosa consapevolezza.

L'isola del teschio – Il testo e gli attori

Tragicamente le gioie dell'estetica non vengono assecondate da un testo altrettanto potente. Si tratta di un film pensato e finito per fare botteghino, con uno svolgimento sempliciotto e con personaggi poco interessanti. Gli attori, pur forti di ottimi pedegree, si ritrovano infatti a vestire i panni di individui di cui poco ci si cura, complice il fatto che molti parrebbero avere le parole “carne da macello” tatuate sulla fronte. Il colonnello Packard, il reduce Marlow e il professor Randa sono gli unici a ricavarsi un po' di spazio espositivo, ma non si salvano in alcun modo dall'essere etichettabili come maschere topiche quanto goffe. Tutti gli altri, compresa la coppia di “protagonisti” formata da Hiddleston e Larson, poco aggiungono alla stantia trama, rendendo tali ruoli superflui. Una nota positiva si riscontra piuttosto nel fantasioso design dell'atipica fauna dell'isola, inquietante e pericolosa, la quale offre degli attimi di sincera curiosità che tuttavia non vengono esplorati né offrono una visione organica dell'ambientazione.

Godzilla VS King Kong

King Kong era stato riscoperto nel vicino 2005 da Peter Jackson e aveva ottenuto uno straordinario successo agli occhi della critica, quest'ennesimo rifacimento è nato solamente a causa dello smaccato intento del voler creare un nuovo pantheon di mostri leggendari. Il progetto è stato fondato nel 2014 quando il ritorno economico del redivivo Godzilla occidentale ha aperto la strada a una serie di sequel pianificati con l'ottica “marvelliana” che va di moda tra i grandi studios. Complice il finale post-credit di Kong è naturale paragonare le due pellicole, vagliando pro e contro del percorso che si va a consolidare.

Godzilla non era un bel film. Era epico, atmosferico, esaltava in maniera encomiabile la grandiosità del proprio soggetto, ma era assolutamente carente sul piano narrativo. I trailer ci avevano suggerito un'accoppiata Bryan Cranston – Ken Watanabe che si è rivelata una mezza frode, lasciandoci sulle spalle di un insipido milite interpretato da Aaron Taylor-Johnson. Il primo atto della pellicola aveva però creato un senso di drammaticità e tensione che è perdurato fino ai titoli di coda, facendo leva su subdole suggestioni e ritmi lenti. Godzilla non era un bel film, ma aveva scelto di puntare a un traguardo ambizioso e ha tentato di rimanere coerente con la propria visione.

Kong: Skull Island, di contro, mette subito in mostra la propria creatura e certamente non si imbarazza a concederle spazio. Tutto ruota attorno ad azione e humour tipicamente “fumettistici”, limitandosi al massimo a scombussolare qualche banalità per favorire l'ilarità pubblica. Kong risulta migliore del predecessore sotto molti aspetti, ma è banalmente pensato per essere divertente (e lo è). Le risate sovrastano l'orrore, le gag prendono il posto del rispetto reverenziale, l'intrattenimento leggero soppianta il cupo messaggio del King Kong originale.

Il Godzilla del 2014 era fiaccato da grosse falle, ma desiderava occidentalizzare il kaiju giapponese per antonomasia mantenendo la sensibilità del capolavoro del 1954, Kong fa invece riferimento ai film più tardi, quando le gargantuesche belve si scambiavano colpi di wrestling e festeggiavano le proprie prodezze con ridicoli balletti. In sostanza Skull Island sguazza nel trash, divertentissimo e peccaminoso, ma mai in grado di auspicarsi alti obiettivi.