Un film umoristico ambientato durante la seconda guerra mondiale, il cui protagonista è un nazista che denigra il popolo ebraico e in cui Hitler è un simpaticone: Jojo Rabbit ha tutti gli ingredienti per essere una commedia a la Per favore non toccate le vecchiette, ma decide di inoltrarsi su un percorso tortuoso che lo eleva in una direzione diversa.

Trama – Heil myself

Johannes "Jojo" Betzler (Roman Griffin Davis) ha appena compiuto dieci anni ed è pronto a intraprendere il rito di passaggio che segnerà la fine della sua infanzia: entrare nella gioventù hitleriana. Gracile, di buon cuore e non particolarmente brillante, Jojo è l’antitesi dei valori attribuiti alla “razza ariana” e soffoca le sue insicurezze con una venerazione zelota della mitologia nazista. Il suo indottrinamento è tanto rigido che, nei momenti di debolezza, si confida con un Hitler immaginario (Taika Waititi) che considera il suo migliore amico.

Vittima di un incidente, Jojo rimane confinato in casa per il periodo della convalescenza, incappando fortuitamente in Elsa (Thomasin McKenzie), una ragazza ebrea che si nasconde nelle intercapedini dell’edificio. Incuriosito e disgustato allo stesso tempo, il piccolo nazista inizia a intavolare un progetto etnografico che lo porterà irrimediabilmente a confrontarsi con il diverso, scoprendo in esso molte più affinità di quante i suoi preconcetti gli lasciassero intendere.

Tecnica – Springtime for Hitler

Il film trasuda lo stile del regista Taika Waititi (Vita da vampiro, Thor: Ragnarok) in ogni fotogramma, ma allo stesso tempo rivoluziona il suo canone offrendo qualcosa di inaspettato e controverso. Noto per il suo humor brillante e scanzonato, Waititi azzarda qui qualcosa di diverso, di più maturo. Prende le distanze dalla comicità che lo caratterizza per esplorare quella che, di fatto, è una commedia spezzata da elementi drammatici che si acuiscono con il progredire della trama. Jojo Rabbit sa far ridere, ma non si pone come raccolta di gag da poter citare agli amici ed è anzi molto più serio di quanto comunicato in fase di marketing.

Particolarmente encomiabile è anche la fotografia di Mihai Mălaimare Jr. (Twixt, The Master), il quale, avendo fatto gavetta con Francis Ford Coppola, offre il giusto supporto a Waititi garantendo soluzioni sceniche di grande impatto. Che si tratti di un paio di piedi animati da estatiche danze o di finestre che guardano mute una scena pregna di orrore, le inquadrature sanno come sintetizzare o enfatizzare gli elementi di rilievo, fomentando la risposta emotiva. Sul piano dell’immagine è il lungometraggio più elaborato ed elegante a cui Waititi abbia mai messo mano, una sorpresa gradita che fa ben sperare per il futuro artistico dell’autore.

Attori – The Hop Clop

Ogni volta che ho a che fare con protagonisti bambini sudori freddi iniziano a bagnarmi la schiena. Il neofita Roman Griffin Davis abbatte ogni fobia: i suoi occasionali impacci si fondono alla perfezione con la natura puerile del suo ruolo, zoppicando esclusivamente nelle scene di grande dramma. Thomasin McKenzie (Lo Hobbit: La battaglia dei cinque eserciti) è una decente coprotagonista, ma complessivamente troppo passiva e piatta. Difficile definire se sia una mancanza attoriale o di copione, ma calcare la sua Elsa manca di energia e passione.

Le performance dei VIP sono invece tutt’altro che fiacche. Il ruolo, tutto sommato di supporto, di Scarlett Johansson (Under the skin, The Avengers) si dimostra accattivante nonostante i toni enfatizzati e l’attrice riesce a incarnare la parte senza scadere nel grottesco. Anche Sam Rockwell (Tre manifesti a Ebbing, Missouri, Moon) rischia regolarmente di sfociare nel farsesco: veste i panni del capitano Klenzendorf, un soldato disilluso e debosciato con inclinazioni al travestitismo e con una probabile love story omoerotica. Nonostante le premesse disastrose, il risultato è tutto sommato positivo e rasenterebbe il virtuoso, se non fosse tanto limitato dall’impostazione scanzonata.

Conclusioni – Goodbye!

Difficilmente Jojo Rabbit entrerà nella storia del cinema: è troppo ridicolo per essere serio ed è troppo serio per essere ridicolo. Al suo interno si possono identificare le scintille di un regista in grado di fare grandi cose, ma che fatica a rinunciare al suo lato ironico anche quando va a demerito del suo lavoro. La pellicola verrà inoltre accusata di aver umanizzato i soldati nazisti, di averli “deresponsabilizzati” dalle loro azioni o per averli rappresentati come vittime di un sistema soverchiante, di aver infranto dei taboo sacri.

Credo che la lettura opportuna sia quella diametralmente opposta. Vedo Jojo Rabbit come una lettera di speranza lanciata contro i nuovi fascismi, contro i sovranismi spietati che aizzano le folle, contro la xenofobia. Taika Waititi si affida alla fondamentale bontà delle persone, suggerendo che l’odio verso l’alterità sia frutto dell’ignoranza, della distanza tra umani e del cieco desiderio di appartenenza. I nazisti non sono brave persone, ma le brave persone possono agire da naziste quando agiscono codardamente.