Hollywood, anni 20. Nella villa di una star si svolge un party sfrenato a base di droga e sesso, dove tutto sembra consentito, perfino avere un elefante per intrattenere gli ospiti. Qui si incontrano la disinibita Nelly, aspirante attrice, e Manny, un ragazzo messicano pronto a tutto pur di entrare nell’industria del cinema. Lui si innamora immediatamente di lei ed entrambi durante quella serata hanno l’occasione di realizzare il proprio sogno. Nelly viene notata e chiamata all’ultimo minuto per sostituire un’attrice andata in overdose, mentre Manny fa amicizia con Jack Corran star di punta della MGM.  L’avvento del sonoro però cambierà per sempre l’industria cinematografica trasformando Hollywood in nuova Babilonia legata alla parola.

Le origini del cinema hollywoodiano hanno da sempre una loro mitologia, oltre a prestarsi a un gioco di metafore per l’era moderna. Il mito del cinema in ottica americanocentrica parte come una sorta di avventura in cui il nuovo mezzo è ancora tutto da scoprire, passa per una fase di massima creatività di soluzioni narrative e visive dovute giocoforza alla mancanza del sonoro, per finire con l’avvento di questo, che però porta il cinema ad un blocco sia fisico (a causa dei microfoni la macchina da presa è fissa), che morale con un maggiore senso del pudore. Damien Chazelle in Babylon racconta proprio questo momento di transizione, mettendo in chiaro sia nel titolo le sue intenzioni e mostrando Hollywood come una terra di piacere, deliri e stravaganze. Per fare ciò mette in piedi un film faraonico da vecchio studio con un enorme budget, chiamando star di richiamo come Brad Pitt e Margot Robbie. I suoi protagonisti, in particolare Nelly, Manny e Corran hanno un destino chiaro fin dall’inizio, travolti da una sorta di tritacarne che è lo star system. La scena iniziale della festa dà il ritmo a tutto il film, decisamente poco armonico e che si lascia andare a cadenze e improvvisazioni che ricordano il jazz, grande amore del regista.

Il problema è però che se da una parte si apprezzano le anarchie che pongono Babylon fuori da una tradizionale griglia narrativa, dall’altra non si può fare a meno di segnalare che spesso le cose non funzionano. Il passaggio a generi diversi ad esempio, con lunghe parentesi nella storia come nell’episodio con Tobey Maguire, ma anche la superficialità della psicologia dei personaggi ridotti a pure funzioni, o nel dimenticare quelli secondari come il trombettista o Lady Fay Zhu che dovrebbero avere un loro arco narrativo che risulta debolissimo nonostante le tre ore abbondanti di film sono altri esempi. Ma è anche il concetto stesso di cinema che viene banalizzato.

Voglio essere parte di qualcosa di più grande dice Manny quando Nelly gli chiede perché voglia lavorare a Hollywood, o il monologo fatto dalla vecchia giornalista a Jack Corran, star sul viale del tramonto, ma che vivrà per sempre grazie ai film che ha interpretato. 

Chazelle è decisamente più incisivo quando si tratta di usare la macchina da presa sia in scene non riuscite al cento per cento come quella della festa (siamo comunque lontanissimi dai ritmi e dal montaggio di Baz Luhrmann in Moulin Rouge!), o nella bella sequenza in cui Manny torna in sala dopo tanti anni. Peccato che questa scena finale sia rovinata dal montaggio di immagini di film contemporanei che urlano in faccia allo spettatore: “Ecco qua, guarda cosa fa la magia del cinema!”