Sarebbe sufficiente una di quelle faccine che oggi vanno tanto di moda per giudicare questo film, un’emoticon con la bocca rivolta all’ingiù, in segno di delusione. Tomb Raider: la culla della vita ricalca in negativo il suo predecessore, confermando ancora una volta come certi personaggi starebbero meglio in un videogioco che sul grande schermo. Lo si capisce subito, in una delle prime scene: Lara Croft è in fuga da un antico tempio greco ritrovato nelle profondità del Mediterraneo, a largo dell’isola di Santorini, quando i cattivi di turno sparano alla sua bombola d’ossigeno. La bellissima protagonista sembra perduta e tenta il tutto per tutto, ferendosi un braccio per attirare uno squalo bianco (in Grecia?!) con l’odore del sangue. La bestia orribile arriva in pochi secondi, e Lara gli assesta un poderoso cazzottone sul grugno per fargli capire chi è che comanda (ignorando la legge fisica che costringerebbe anche il miglior pugile a boxare al rallentatore sott'acqua), dopodiché si attacca alla pinna e si fa riportare in superficie. Sono passati dieci minuti dall’inizio del film e già tutto è delineato, difficile pensare a una clamorosa svolta che riporti la storia su un piano di credibilità. E infatti si assiste per due ore a un inseguimento continuo in giro per il mondo, alla ricerca del mitico vaso di Pandora che, in mano ai criminali, rappresenterebbe la più potente arma di distruzione che la civiltà ha mai conosciuto. Dalla Cina (dove il film, accusato di oltraggiare l'immagine del paese, è stato censurato) per recuperare la mappa, fino in Africa per cercare la culla della vita: sembra davvero di assistere a un videogioco, la sequenza di immagini di azione pura (con tutte le esagerazioni del caso) è davvero impressionante. Evoluzioni degne dell’uomo ragno tra un palazzo e l’altro, voli acrobatici, combattimenti improbabili, fino allo scontro finale con gli uomini ombra, strani mostri posti a guardia del vaso, nascosto nella Montagna di Dio, vicino al Kilimangiaro. E la trama? Be’, quella dev’essere restata nella penna dello sceneggiatore Dean Georgaris, che ha preferito puntare tutto sulle meravigliose riprese di alcuni fra i luoghi più straordinari del mondo, dimenticandosi di metterci dentro personaggi con un minimo di spessore, dialoghi degni perlomeno di un generatore automatico di frasi e una storia passabile.

Vanno in fumo, quindi, tutti gli sforzi che la bellissima Angelina Jolie aveva messo in questo film, per riscattare l’immagine dell’eroina più famosa del mondo.

L’unica cosa che si salva, perché qualcosa si finisce sempre per salvare, è il rapporto della protagonista con l’ex amante Terry Sheridan, interpretato da Gerard Butler, fatto uscire dal carcere dopo l’accusa di tradimento nei confronti dello stato inglese. L’attrazione dei due è pari solo alla loro ostilità e alla loro divergenza di opinioni e di intenti, che li porterà di fronte alla culla della vita a decidere del loro futuro, nell’unico colpo di scena convincente di tutto il film.

Nell’estremo tentativo di giustificazione ho pensato che, tutto sommato, questa pellicola poteva essere adatta a un pubblico di adolescenti, fino a quando, all’uscita dalla sala, ho assistito a un colloquio di tre quindicenni intenti a ridicolizzare il film da ogni punto di vista. Che dire, due generazioni fa io mi trovavo fuori da una sala cinematografica esattamente come loro, insieme a due amici a elogiare senza riserve il grande film che avevamo appena finito di vedere. Dietro di noi, sulla locandina appesa al muro, una frusta e un cappello accompagnavano quella scritta gialla e rossa, leggermente incurvata, che recitava: Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta.