Anche l’ipotesi un tempo in auge circa il fatto che i draghi fossero il risultato del ricordo ancestrale del confronto dei primi uomini con i dinosauri, cozza contro i moderni studi che dimostrano come i dinosauri si siano estinti ben prima che gli uomini facessero il loro ingresso sulla faccia della Terra e che quindi queste due specie mai si sarebbero potute incontrare.

Allora perché questo titolo? Vi sto forse prendendo in giro?

Non proprio; sta di fatto, invece, che il drago è un elemento ben radicato nella fantasia umana, in qualsiasi parte del mondo, anche se con simbolismi alquanto diversi, e, almeno da un punto di vista letterario, si può quindi dire che abbia diritto di esistenza nel nostro mondo. Ma questo non dimostra la sua necessità…

Innanzitutto chiediamoci, cosa è un drago? Sull’esempio del Professore di Oxford, ho aperto una enciclopedia (per l’esattezza, il Dizionario Enciclopedico Italiano della Treccani, Ed. 1970) ed ho tratto la seguente definizione:

Drago

Animale favoloso, in aspetto di serpente o di rettile o di pesce immane, con testa di cane, gatto o lupo, ali da pipistrello, zampe di aquila, bocca multilingue o ignivoma.

Quindi il drago è un personaggio favoloso, per cui sono andato a leggere cosa viene detto a proposito di “favola”:

Favola

a) breve composizione, per lo più in versi, in cui agiscono o parlano animali, piante o altri esseri inanimati, e che racchiude un insegnamento morale, spesso dichiarato esplicitamente dall’autore stesso;

b) qualsiasi invenzione fantastica; quindi leggenda:

c)  nei componimenti letterari, invenzione;

d) cosa non vera,  fandonia.

Fiaba:

possibile, e necessario, distinguere la favola dalla fiaba, anche se il confine fra esse è incerto, tanto che le due parole sono talvolta impropriamente usate l’una per l’altra. La fiaba, infatti, è in prosa; ha come protagonista di solito l’uomo, nelle cui vicende intervengono spiriti benefici o malefici, demoni, streghe, fate, ecc.; ha molto maggiore sviluppo narrativo; carattere più dichiaratemente fantastico; non ha necessariamente fini morali o ammaestrativi; ha origine popolare e sviluppo per tradizione orale.

Iniziamo subito col dire che rifiuteremo tout-court la definizione (d), che se accettata, porterebbe al termine immediato di questa trattazione. Per quanto riguarda la definizione (a), dalla successiva nota si desume che se l’opera in questione non è in versi, è più esatto definire il drago come il personaggio di una fiaba più che di una favola. Ma a ben vedere le definizioni (b) e (c) non dovrebbero essere mutuamente esclusive fra loro e con la prima, in quanto si può dimostrare che tutte e tre concorrono a darci l’esatta definizione di fiaba.

Ebbene JRRT non solo ha scritto alcuni capolavori come Il Signore degli Anelli, Lo Hobbit e Il Silmarillion, ma è anche stato un attento studioso e teorizzatore sulle fiabe (o meglio, come lui stesso si definisce, “un appassionato di fiabe fin da quando ho imparato a leggere” [AF-SF#13]), e sono quindi i suoi testi che mi accingo ad analizzare, in particolare il saggio Sulle fiabe (inizialmente scritto per la Andrew Lang Lecture e letto in forma abbreviata alla University of St. Andrew nel 1938), contenuto sia nella raccolta Albero e foglia che in Il medioevo e il fantastico, ed il brano Beowulf, mostri e critici (tenuto come conferenza alla British Academy nel 1936), anch’esso contenuto nell’ultima raccolta prima citata, nonché alcuni riferimenti alla figura del drago contenuti nel suo epistolario (La realtà in trasparenza), per non parlare delle sue stesse opere narrative, e non solo in riferimento ai draghi: il ciclo delle tre opere maggiori di Tolkien può essere invero visto come una grandiosa fiaba.

La fiaba, ci dice Tolkien, è difficile da definire. Quanto ci viene riferito dai dizionari non è esaustivo: nel lessico inglese, fiaba è tradotto come fairy-tale, cioè “racconto di fate”. ma il “Sogno di una notte di mezza estate” di Sheakspeare che ci parla di fate gnomi e folletti ci pare meno degno di meritare l’appellativo di fiaba che non i racconti del ciclo Arturiano, dove di esseri fatati non v’è l’ombra, eccetto, guarda caso, proprio un drago… Tutti questi elementi ultra-naturali (nel senso che non esistono nella natura reale) appartengono a quello che Tolkien definisce il mondo di Feeria, ovvero della Magia. E poi in una fiaba si possono trovare anche altre creature magiche, oppure può riguardare solo un comune mortale per quanto oggetto di un incantesimo: in effetti una fiaba ci appare assai poco interessante se, assieme agli abitanti del regno di Feeria, non appaiano anche dei normali esseri umani in qualche modo entrati in relazione con i primi.

La magia di Feeria non è infatti fine a sé stessa, ma risponde a delle esigenze primarie dell’uomo quali quella di sondare il tempo e lo spazio, e di entrare in maggior comunione con gli altri esseri viventi. In qualche modo, quindi di umanizzare la natura, o di “naturalizzare” l’umano, ovvero di ricondurre entrambe le categorie in uno stesso ambiente, luogo: Feeria, appunto. Non paiono allora degne di essere annoverate fra le vere fiabe quei racconti dove compaiono solo animali dotati di favella (e quindi in un certo senso magici) in quanto in questo tipo di racconto non abbiamo l’interazione fra il magico e l’umano, e quindi tutto si esaurisce quasi sempre solo in una satira o in un intento moralistico più o meno evidenti, senza una reale comunicazione frutto d’una significativa tensione fra l’uomo e la natura.

Dove nascono allora le fiabe, e come possono essere definite? Sulle origini storiche delle odierne fiabe, così come dei miti, Tolkien ci dice che è materia tanto ardua che “ormai districarla supera le capacità di chiunque non sia un elfo” [SF-AF#34]. Leggiamo allora con Tolkien la sua teoria generale sulle origini delle fiabe [SF-AF#35-36]: