"La mente incarnata, la favella e il racconto sono, nel nostro mondo, coeve. La mente umana, dotata dei poteri di generalizzazione e astrazione, percepisce non soltanto erba verde distinguendola da altri oggetti (e trovandola piacevole da guardare), ma s'avvede che è sia verde sia erba. E quanto possente, quanto stimolante per la facoltà stessa che l'ha prodotto, è stata l'invenzione dell'aggettivo! Nessuna formula magica o incantesimo di Feeria lo è di più. E non può sorprendere: tali incantesimi potrebbero invero essere ritenuti null'altro che un diverso aspetto degli aggettivi, una parte del discorso di una grammatica mitica. La mente che pensò leggero, pesante, grigio, giallo, immobile, veloce, concepì anche la magia atta a rendere cose pesanti, leggere e atte a volare, a trasformare il grigio piombo in giallo oro, l'immobile roccia in acqua veloce. Se poté l'una, poté compiere anche l'altra cosa; inevitabilmente le fece entrambe. Se possiamo distinguere il verde dall'erba, l'azzurro dal cielo, il rosso dal sangue, abbiamo già il potere di un mago, per lo meno a un certo livello; e si desta allora il desiderio di esercitare tale potere sul mondo esterno alla nostra mente. Non ne consegue che tale potere noi lo useremo appropriatamente a ogni livello. Possiamo stendere un ferale verde sul volto di un uomo e generare un orrore; possiamo far germogliare boschi di argentee foglie e far indossare agli arieti velli d'oro, possiamo mettere fuoco caldo nel gelido ventre del drago. Ma tali « fantasie », come si usa chiamarle, sono la matrice di nuove forme; ha inizio Feeria; l'uomo diviene un subcreatore".

E i miti? I miti sono in qualche modo collegati alle fiabe, alla magia? Sì, ci dice Tolkien, essi sono indissolubilmente legati a queste ultime, perché sono anch’essi l’umana risposta a quel bisogno fondamentale di avvicinare in qualche modo la natura selvaggia, ed incognita, e la natura umana, ancora più se vogliamo misteriosa. È venuto prima Thorr, il dio del tuono (notare che Thorr in norreno vuol proprio dire tuono), il tuono stesso, o forse un contadino muscoloso con la barba rossa ed irascibile? Oppure essi sono contestuali, cioè sono stati recepiti insieme, i loro significati fusi, e trasfigurati nel mondo di Feeria?

L’esempio dei miti ci porta ad un’altra considerazione. Quand’è che una fiaba è ben riuscita, e con questa qualifica s’intende di piacevole lettura, non scevra da interesse? Secondo il Nostro, essa deve principalmente essere credibile. Attenzione però a non fare confusione; credibile, in questo contesto, non vuol dire che io devo credere che esistano gli gnomi e le fate, ma che il contesto nel quale si sviluppa una fiaba di gnomi e di fate sia coerente con se stessa, permetta al lettore la ricerca di meraviglia, di entrare cioè in quello stato d’animo che in letteratura viene definito “la volontaria sospensione dell’incredulità”, ma che Tolkien preferisce definire subcreazione, ovvero Mondo Secondario o Credenza Secondaria. All’interno del mondo creato dall’inventore, dal subcreatore, il lettore può riconoscere la validità e la realtà delle leggi e degli elementi ivi esistenti, solo se la sua credulità non vacilla nemmeno per un attimo, altrimenti questi rientrerebbe immediatamente nel Mondo Primario, e tutta l’esistenza del Mondo Secondario crollerebbe come un castello di carte mal riuscito.

Questa operazione è certamente più facile nei bambini, che sono da sempre (od almeno, in questi ultimi secoli) considerati l’auditorio naturale per le fiabe. A parte che tali forse li fanno diventare i genitori e gli educatori, che nella prima infanzia propongono loro solo questi tipi di racconti, si può dire che la credulità letteraria è più facilmente ottenibile per un bambino, per cui non è ancora così netta la differenza fra reale e fantastico, fra Mondo Primario e Secondario. Un bimbo, per la prima volta di fronte ad una fiaba che parlerà di draghi, di streghe o di fate, quasi sicuramente ci chiederà: è vero?

Ma la credulità letteraria non è prerogativa peculiare dei soli bambini: se la subcreazione è ben organizzata, essa potrà fare entrare nel mondo secondario anche gli adulti: se il loro gusto per il fantastico è vivo, se la loro esigenza di evadere dal reale per tuffarsi nel mondo di Feeria è impellente, nell’ipotesi che il mondo subcreato dall’autore sia adeguatamente credibile e coerente, essi saranno in grado di entrare nella credenza secondaria, di vedere fati, gnomi, di parlare con draghi, di eseguire o essere avvinti da incantesimi, in qualche modo di entrare in modo più diretto e personale in contatto con il mondo naturale a cui disperatamente si anela nel mondo primario. Certo la fiaba destinata al pubblico adulto deve essere molto più profonda e complessa di quelle solitamente usufruite dai fanciulli; necessiterà all’autore fatica, riflessione, una particolare abilità (forse magia?), poiché l’adulto ha ormai ben presente il confine fra reale ed irreale, fra contingente e desiderio, fra storia e mito, ma quanto più alto sarà il risultato se l’inventore riuscirà ad irretire nella sua malia un pubblico così smaliziato!

E come si riesce ad ottenere l’effetto di Credenza Secondaria in una fiaba? L’elemento che solitamente è sempre associato ad una fiaba è la lontananza nel tempo o nello spazio, od addirittura in entrambi. Il contingente, il conosciuto, mal si accomuna con la fantasia e con la credulità. Romanzi che ci narrano di draghi sotto i grattacieli di New York (vi assicuro che ne esistono) sono quanto di più improbabile ed incoerente possa esistere, ed in ultima analisi più lontani dallo spirito fiabesco. Il naturale incipit delle fiabe, “C’era una volta…” ha il pregio di collocare gli eventi narrati in un allorquando indefinito, comunque lontano dal tempo e dal reale del narratore. La distanza temporale non si realizza solo nel passato: ho in mente le bellissime storie di Jack Vance “Le città del lontanissimo futuro”, dove la traslazione temporale è invertita, e queste fiabe fantascientifiche (perché come tali le avrà riconosciute l’attento lettore) traggono forza proprio dall’incerta ma distante collocazione sia nel futuro temporale, sia nell’altrove spaziale.