Quindi dobbiamo tenere in conto il potente effetto della Fantasia, vista come Immaginazione: la capacità della mente umana di concepire cose non presenti nel mondo primario, anzi sicuramente non reperibili, è per Tolkien la più alta e pura forma di Arte che l’uomo conosca. Avremmo mai avuto noi una statua della Vittoria di Nike alata se l’uomo non avesse immaginato tale improbabile ed irreperibile creatura? E Pegaso sarebbe esistito se la metafora di un cavallo veloce come il vento non avesse preso letteralmente le ali? Avremmo mai letto l’Iliade e l’Odissea se uno o più uomini non avessero immaginato Dei e Dee seduti in cima al monte Olimpo, ed eroi che in nome loro e per la propria gloria non si fossero affrontati una improbabile guerra per la mano di una donna, per quanto bella ella fosse potuta essere? La figura terribile e possente del drago avrebbe mai potuto esistere senza il magico potere creativo della mente umana?

Ma perché l’uomo da sempre è attratto dalle fiabe? Egli ricerca in esse Ristoro, per la bellezza intatta ed ancora fanciullesca con cui può ancora guardare al mondo di Feeria, in contrasto con la rigida ed ormai cristallizzata visione del mondo primario che egli ha: nella fiaba “noi possiamo vedere le cose come siamo (o forse solo eravamo) destinati a vederle.” [SF-AF#78]

Ma il nostro animo ha anche bisogno di Evasione: si badi bene, “Evasione del prigioniero, non Fuga del disertore” [SF-AF#82]. Le brutture del mondo che ci circonda possono essere facilmente superate nel mondo di Feeria; in qualche modo il subcreatore, nel suo mondo secondario, tenta di ristabilire la bellezza o persino la bruttezza nelle loro giuste proporzioni e collocazioni, quali forse il Vero Creatore le aveva destinate nel Mondo Primario: il castello di un orco, cioè di una creatura malvagia, potrà essere brutto, ma mai quello di un giusto Re, oppure un’utile locanda, persino la bottega di un umile fabbro. Mentre invece [SF-AF#86],

Il più pazzo castello che mai sia uscito dalla sacca di un gigante in uno sfrenato racconto gaelico, non soltanto è assai meno brutto di una fabbrica-robot, ma è anche ben più reale di essa « in senso quanto mai reale », per servirci di una tipica locuzione moderna. Perché non dovremmo fuggire o condannare […] l'orrore morlockiano delle fabbriche? Queste sono condannate persino dagli scrittori di quel genere letterario che è il più evasivo di tutti, la fantascienza. 

Non fare questa operazione, non solo ci preclude dall’evasione, ma anzi ci colloca fra gli acquiescenti collaborazionisti del brutto e dell’ingiusto. Come non sorridere con Tolkien quando riporta quanto sentito dire da un suo collega di Oxford, ovvero che « accettava di buon grado » la vicinanza di fabbriche robotizzate per la produzione in serie e il rombo del traffico meccanico autoingorgantesi, perché ciò metteva la sua università « a contatto con la vita vera » [SF-AF#84] ?. Ed anche, poco oltre [SF-AF#85]:

Per quanto mi riguarda, non riesco a convincermi che il tetto della stazione di Bletchley sia più « reale » delle nuvole; e, come manufatto, mi ispira meno della leggendaria cupola del cielo. La passerella di accesso al marciapiede quattro, ai miei occhi è meno interessante di Bifröst vigilato da Heimdall munito del Gjallarhorn. Dal mio cuore selvatico non riesco a bandire la domanda, se gli ingegneri ferroviari, qualora fossero stati allevati con un pizzico in più di fantasia, non avrebbero potuto far di meglio, con gli abbondantissimi mezzi di cui dispongono, di quanto comunemente non facciano. Le fiabe, a mio giudizio, potrebbero essere migliori maestre del personaggio accademico cui ho dianzi accennato.. 

E infine suprema completezza della fiaba è la Consolazione, ovvero il lieto fine. A differenza del teatro, dove la tragedia la fa da padrona, nella fiaba, nella buona fiaba, si deve avere, per quanto terribili, fantastici o spaventosi siano gli avvenimenti narrati, un gioioso capovolgimento che sommuova la mente ed il cuore del lettore, che lo porti quasi alle lacrime, ciò per cui Tolkien ha coniato il termine di eucatastrofe (cioè buona fine, buon capovolgimento), l’opposto, se non nell’etimo, almeno nel senso, della tragedia. Attenzione, non è che si debba negare l’esistenza del dolore e del fallimento, ma, secondo il Nostro, va ricordato, anzi fortemente affermato che la Fede ci indica la immancabile ed universale vittoria del Bene, e di conseguenza ogni lutto si deve stemperare e volgersi in gioia attuale in vista della gloriosa Gioia finale. La glossa finale presente in quasi tutte le fiabe “e vissero tutti felici e contenti” è sovente sinonimo e simbolo di questa necessità, unita all’espediente di sfumare la cornice in cui si innesta la vicenda fantastica per accrescerne il senso di irrealtà e di magia.

La famosa domanda che solitamente un bambino ci pone leggendo una fiaba,  “è vero?”, viene ribaltata per qualsiasi lettore in quest’altra: “avete costruito bene il vostro mondo?” Se la risposta è affermativa, allora, sì, in quel mondo tutto ciò che sto leggendo è vero, il fantastico diventa ristoratore e consolatorio, l’immaginazione ha creato un vero Mondo Secondario, l’autore è un vero Subcreatore.

Detto ciò, possiamo tornare alle nostre riflessione sui draghi. I draghi esistono? No, non esistono nel nostro Mondo Primario. Sì, esistono nel nostro Mondo Secondario, se l’autore è riuscito in qualche modo a renderli veri, vividi, credibili, se la magia di Feeria che li pervade è riuscita in qualche modo a contaminare anche il subcreatore, e per suo tramite ciò che egli ha creato, per finire con il pervadere il lettore stesso.

Attenzione, come già detto, questo non significa confondere il fantastico con il possibile. La bellezza di una fiaba risiede nella sua desiderabilità, non nella sua possibilità, che anzi appena il lettore dovesse porsi questo interrogativo vedrebbe sfumare la malia in cui era incatenato. Tolkien, il professore che amava i draghi, come è stato definito, lo scrittore che in una sua lettera ci fa sapere che il suo primo ricordo di invenzione letteraria è di aver scritto da bambino una storia riguardante “un verde grande drago” [LETT#163], è lo stesso che in un’altra lettera afferma: “Io non ho mai visto un drago, né ho mai conosciuto un uomo che affermasse di averlo visto. Non desidero vedere nessuno dei due.” [LETT#300]

Invece, sempre come Tolkien ci racconta, parlando delle sue letture infantili e della sua predilezione per i racconti sui pellerosse [SF-AF#58-59]: