Spiriti infernali

In generale le Arpie si trovano legate col mito di Fineo e degli Argonauti, i primi marinai eroici della mitologia. Avendo offerto ospitalità a Enea, ramingo progenitore di Roma, gli dèi Era e Poseidone lo punirono inviandogli proprio le nostre alate protagoniste. Fu salvato dai due argonauti Colai e Zete, detti Boreadi perché figli di Borea. Troviamo la storia delle Arpie in molte tragedie e poesie, le opere di Eschilo (Eleusi, 525 a.C. – Gela, 456 a.C.), e Sofocle (Colono 496 a.C. – Atene 406 a.C.), su tutte. La fine delle nostre antieroine è incerta: qualcuno le vuole uccise dai Boreadi, per altri avrebbero finito per rifugiarsi sulle Isole Strofadi, pronte a rilanciarsi contro i malcapitati mariani di passaggio. Sempre che qualche divinità permalosa non avesse intenzione di scagliarle contro i poveri mortali che magari si erano dimenticati di far qualche sacrificio o gli avevano rifiutato qualche avance. E l’avere la residenza da quelle parti, se non nelle Strofadi nelle Iole Plotae o nei giardini delle Esperidi, tutti luoghi immaginari situabili più o meno nell’Egeo o nelle Ionio, dalle parti di Zante, dove fra le calde sorgerti sottomarine e le calli dove l’acqua del mare puzza un po’ di zolfo si può immaginare che i demoni non siano lontani. Quindi la collocazione nell’estremo occidente greco, ha cominciato a dare alle Arpie un collegamento con modo degli Inferi.

D’altronde lo stesso Omero gli dava in qualche modo un carattere infernale, definendole dee della morte (sempre Telemaco nel libro I, ma anche il porcaro Eumeno nel libro XIV dell’Odissea). E così le Arpie cominciano piano a piano ad assumere caratteristiche fisiche più mostruose rispetto quelle delle origini, come si confà a ogni abitante degli inferi che si rispetti. Cambiano anche lavoro e si mettono a rapire le anime degli uomini morenti. Il corpo diventa quello di uccelli mostruosi, e il viso femminile diventa una maschera di furia e orrore. I seni sono avvizziti, e gli artigli d’aquila più affilati che mai.

È più o meno così che ci vengono presentati sotto il regno di Cesare Augusto nell’Eneide di Virgilio (Publio Virgilio Marone, Andes, 15 ottobre 70 a.C. – Brindisi, 21 settembre 19 a.C.), che nel XVI libro pone la residenza delle Arpie nell’Averno, il regno dei morti per i Romani.

Il sommo poeta latino le vuole magre a avvizzite, col volto da donna sfigurato da una perenne espressione rabbiosa.

At subitae horrifico lapsu de montibus adsunt

Harpyae et magnis quatiunt clangoribus alas

diripiuntque dapes contactuque omnia foedant

immundo, tum vox taetrum dira inter odorem.

(Eneide, Libro III  225-229)

Qualcosa come:

Improvvise con terribile velocità scendono dai monti le Arpie, e sbattono con grande rumore le ali, rubano gli alimenti e sporcano ogni cosa col loro immondo contatto, tanto che si odono terribili grida fra il puzzo.

L'eredità delle Arpie

Com’è ovvio, i poeti classici hanno finito per ispirare gli autori medievali e neoclassici. Impossibili non citare Dante (Firenze, 1265 – Ravenna, 14 settembre 1321), che colloca le mostruose signore hanno i loro immondi nidi nella selva dei suicidi, dove chi si è tolto la vita sradicandosi dalla propria esistenza terrena è condannato a passare l’eternità come uomo in forma di albero, vessato in ogni momento dalle terribili Arpie.

Non fronda verde, ma di color fosco;

non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;

non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco:

non han sì aspri sterpi né sì folti

quelle fiere selvagge che 'n odio hanno

tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,

che cacciar de le Strofade i Troiani

con tristo annunzio di futuro danno.

Ali hanno late, e colli e visi umani,

piè con artigli, e pennúto 'l gran ventre;

fanno lamenti in su li alberi strani.

(Divina Commedia, Inferno, canto XIII, 4-15).