«Sarita, quella scimmia è un ladro addestrato che tra un attimo verrà a chiederti dei soldi» dico con un sospiro. Come se mi avesse sentito, la piccola monella pelosa si appollaia sulla mia spalla e protende la zampetta. «Che ne diresti di finire in uno stufato di compleanno?» le chiedo a denti stretti. La scimmia sibila. La mamma fa una smorfia per le mie cattive maniere e lascia cadere una moneta nella tazza del suonatore. La scimmia ghigna trionfante e mi balza sulla testa prima di allontanarsi.

Un venditore ci mostra una maschera intagliata con denti scoperti e orecchie da elefante. Senza dire una parola, la mamma se la mette davanti al viso. «Dove sono?» chiede. È un gioco che facciamo da quando ho imparato a camminare: una specie di nascondino inteso a farmi sorridere. Un gioco da bambini piccoli.

«Io vedo solo mia madre» rispondo annoiata. «Stessi denti. Stesse orecchie».

La mamma restituisce la maschera al venditore. L’ho colpita nella sua vanità, il suo punto debole.

«E io vedo che compiere sedici anni non fa molto bene a mia figlia».

«Sì, ho sedici anni. Sedici. Un’età in cui la maggior parte delle ragazze perbene sono state mandate a studiare a Londra». Calco l’accento sulla parola perbene, sperando di risvegliare il senso materno del pudore e della decenza.

«Mi sembra ancora un po’ acerbo». Sta esaminando un mango. La sua ispezione della frutta è totalizzante.

«Nessuno ha tentato di tenere Tom imprigionato a Bombay» dico, invocando il nome di mio fratello come ultima spiaggia. «È partito da quattro anni! E ora si è iscritto all’università».

«Per gli uomini è diverso».

«Non è giusto. Non avrò mai un ballo da debuttante. Finirò per diventare una zitella con centinaia di gatti che bevono il latte dalle tazze di porcellana». Mi metto a piangere. So che è brutto, ma non riesco a trattenermi.

«Capisco» dice la mamma alla fine. «Ti piacerebbe essere mostrata nelle sale da ballo della buona società di Londra, come una cavalla di pregio, perché vengano valutate le tue capacità riproduttive? Continueresti a pensare che Londra sia tanto affascinante se diventassi oggetto di crudeli pettegolezzi per la minima infrazione alle regole? Londra non è un posto idilliaco come vuol farti credere tua nonna nelle sue lettere».

«Non posso saperlo. Non ci sono mai stata».

«Gemma…». Il tono della mamma è minaccioso, anche se nel contempo continua a sorridere a beneficio degli indiani. Non bisogna far credere che noi dame britanniche siamo così meschine da metterci a discutere per strada. Noi parliamo solo del tempo e, quando fa brutto, fingiamo di non accorgercene.

Sarita fa una risata nervosa. «È impossibile che memsahib è diventata una giovane dama. Sembra ieri che stavi ancora nella culla. Oh, guarda, dei datteri! Ti piacciono tanto». Apre la bocca in un sorriso sdentato che fa prendere vita a tutte le rughe del suo viso. Fa caldo e di colpo ho voglia di gridare, di scappare da tutto e tutti quelli che conosco.

«Di sicuro quei datteri sono marci dentro. Come l’India».

«Gemma, adesso basta». La mamma mi trafigge con i suoi occhi verdi. Saggi e penetranti, li definisce la gente. Io ho i suoi stessi grandi occhi verdi a mandorla, che gli indiani trovano conturbanti. È come essere guardati da un fantasma. Sarita china la testa e sorride, armeggiando con le pieghe del sari marrone. Io provo una stretta di rimorso per aver pronunciato una simile cattiveria sul suo paese. Il nostro paese, anche se negli ultimi tempi non mi sento a casa da nessuna parte.

«Memsahib, non devi voler andare a Londra. È grigia e fredda e non c’è ghee per il pane. Non ti piacerebbe».

Un treno entra fischiando nel deposito più in basso, vicino alla baia scintillante. Bombay. Buona baia, significa, anche se a me non viene in mente proprio niente di buono al momento. Un pennacchio di fumo nero si leva dal treno e va a toccare le nubi cariche di pioggia. La mamma lo guarda salire.

«Sì, fredda e grigia». Si porta una mano alla gola, tasta la collana che porta, un piccolo medaglione d’argento con un occhio onnivedente sopra uno spicchio di luna crescente. Regalo di un abitante di un villaggio, ha detto la mamma. Il suo portafortuna. Non l’ho mai vista senza.

Sarita posa una mano sul braccio della mamma. «Ora di andare, memsahib».

La mamma distoglie lo sguardo dal treno e lascia scivolare in basso la mano. «Sì, andiamo. Ci divertiremo da Mrs Talbot. Sono sicura che avrà delle ottime torte apposta per il tuo compleanno…».

Un uomo con un turbante bianco e un pesante mantello da viaggio nero sbuca dietro di lei, inciampando, e le finisce addosso.

«Le chiedo umilmente perdono, signora». Le sorride, le offre un profondo inchino per scusarsi della propria maleducazione. Così facendo, rivela la presenza di un giovane alle sue spalle con indosso lo stesso insolito mantello. Per un attimo io e il giovane incrociamo gli sguardi. Non è molto più grande di me, avrà al massimo diciassette anni, con la pelle scura, la bocca piena e le ciglia più lunghe che io abbia mai visto. So che non dovrei trovare attraenti gli uomini indiani, ma non mi capita di vedere molti giovani e mi ritrovo ad arrossire mio malgrado. Lui distoglie gli occhi e allunga il collo per guardare oltre la folla.