Nella letteratura fantasy dell’ultimo ventennio la tendenza più diffusa tra gli autori sembra essere stata, almeno inizialmente, quella di seguire il solco, certo imprescindibile e quantomai autorevole, tracciato da J. R. R. Tolkien.

Nonostante ciò non costituisca necessariamente un limite alla creatività e all’abilità tecnico-narrativa di alcuni tra loro, è comunque una conseguenza il fatto che i lettori più appassionati di questo genere e più esigenti abbiano sentito la necessità di nuove voci, che narrassero di mondi ancora inesplorati e in modo differente.

Tra le prime di queste voci, negli ultimi anni divenute un coro di talenti che hanno contribuito a versare linfa giovane alla narrativa fantasy, c’è quella di Steven Erikson.

Il background culturale di Erikson è stata una delle matrici di questo nuovo modo di raccontare il fantastico. Archeologo e antropologo oltre che appassionato di narrativa fantasy, l’autore canadese ha iniziato a creare il proprio mondo a strati successivi, insieme al collega Ian Cameron Esslemont (autore finora di due libri, inediti in Italia, che arricchiscono l’affresco narrativo della serie principale).

Non a caso, il fondamento di uno scavo archeologico è la stratigrafia. Non a caso, il mondo di Erikson ha una profondità storica e culturale immensa, in cui ogni strato si innesta sul precedente. E ogni strato racconta di culture e storie con un dettaglio e con una ricchezza impressionanti.

Il taglio narrativo prediletto da Erikson è quello della storia militare così come lo è quello di uno dei suoi maestri, Glen Cook, anch’egli autore di rottura rispetto alla diffusa tendenza degli scrittori di genere a lui contemporanei, che dagli anni ’80 ha finora ideato tre saghe incentrate sulle vicende di una compagnia di mercenari (Black Company).

Questa scelta comporta un’attenzione particolare per certi aspetti stilistico-narrativi: il realismo, che nella cronaca di guerra è veicolo principale per trasmettere al lettore le dinamiche psicologiche dei personaggi così come la vividezza degli eventi bellici su larga scala, i toni a chiaroscuro dell’ambientazione e delle situazioni, che si riflettono anche nell’assenza di una netta distinzione tra bene e male. La guerra, dopotutto, è una dimensione umana e come tale non può prescindere dai chiaroscuri che nell’animo umano albergano.

La Catena dei Cani, la catabasi del Pugno Coltaine della Settima Armata dell’Impero Malazan, si è conclusa con il sacrificio dei soldati Malazan e Wickan per permettere ai rifugiati civili di trovare la salvezza nella città di Aren.

L’Imperatrice Laseen affida così al nuovo Aggiunto Imperiale, Tavore del casato di Paran, il comando dell’esercito punitivo che dovrà porre fine alla ribellione scoppiata nel continente di Sette Città. L’esercito imperiale è però costituito principalmente da reclute e da un piccolo gruppo di veteranireduci dalla tragica impresa di Coltaine e spezzati nell’animo.

Nel frattempo Sha’ik, l’eletta della Dea del Vortice la cui rivelazione ha innescato il fanatismo religioso che insieme è causa e giustificazione della ribellione, è accampata con il suo esercito nel cuore del Deserto Santo di Raraku, protetta dalla magia della Dea ma in costante pericolo a causa delle profonde divisioni in seno alla sua vasta armata, di cui fanno parte anche gli Uccisori di Cani dell’infido Korbolo Dom.

Su questa trama principale, come è solito aspettarsi da Erikson, si innestano quelle, tra di loro collegate, che fanno da filo conduttore della serie. Anche sotto questo aspetto l’autore canadese ha dimostrato di essere un innovatore: se alla fine di ogni suo volume il racconto principale si conclude, dando al lettore un senso di appagamento e di compiutezza, altre linee narrative (soprattutto quelle legate ai giochi di potere tra le divinità, manifestati nel Mazzo dei Draghi) si ricongiungono a quelle dei volumi precedenti (con antefatti che risalgono anche a centinaia di migliaia di anni rispetto al tempo della trama principale) e promettono nuovi colpi di scena e nuove rivelazioni in quelli successivi.

E così, anche in La Casa delle Catene, nell’avvicinarsi della resa dei conti fra le legioni Malazan e l’esercito dell’Apocalisse, avviene una convergenza di poteri alla quale Déi e Ascendenti sono chiamati.

La storia di un personaggio che i lettori conoscono sotto un altro nome e che promette di essere di importanza primaria per gli sviluppi successivi della serie costituisce la prima parte del romanzo. Una scelta insolita, questa, considerando che Erikson predilige un impianto narrativo a più voci che si alternano anche all’interno dello stesso capitolo.

La vicenda iniziale è dunque lineare. Non annoia, certo, ma a mio avviso rallenta un po’ il romanzo soprattutto rispetto a quegli straordinari climax che Erikson ha saputo costruire in modo ineccepibile nei suoi precedenti La Dimora Fantasma e Memorie di Ghiaccio.

La marcia di avvicinamento dell’esercito di Tavore all’oasi di Pan’Arak, dove è accampato l’esercito di Sha’ik, le lacerazioni interiori di Gamet, elevato al rango di Pugno dallo stesso Aggiunto quando il suo incarico militare era precedentemente quello di capitano delle guardie del casato Paran, i dialoghi sempre acuti, estremamente taglienti e ironici tra i soldati di marina dell’Impero (Erikson si diverte molto a caratterizzare i suoi personaggi-soldato anche se, si potrebbe obiettare, forse lo fa in modo abbastanza ripetitivo) fanno da contrappunto alle divisioni, ai complotti e ai misteri che affollano l’accampamento di Sha’ik (i tormenti di Heboric Mani Spettrali, il vero scopo della presenza del Gran Mago L’oric, le macchinazioni di Korbolo Dom).

Ma, come nei precedenti volumi di La Caduta di Malazan, questo libro ha molto di più sia dal punto di vista della complessità della trama che da quello della profondità psicologica dei tanti personaggi che la animano. Le loro motivazioni, i loro monologhi interiori, sia che si tratti di soldati dell’Impero Malazan che di esseri immortali, hanno il pregio di coinvolgere, spesso e volentieri anche emotivamente, il lettore. Di certo, qui manca un crescendo con un finale maestoso come quelli dei due libri precedenti.

La Armenia ha affiancato per la traduzione di questo volume Chiara Arnone a Lucia Panelli, forse per alleggerire la mole di lavoro che ogni tomo della saga di Erikson comporta. Le imprecisioni ci sono sempre, come nei libri precedenti, e a volte si trovano delle incongruenze sia all’interno del testo sia in relazione agli altri volumi. Senza contare poi che alcune espressioni, come alcuni titoli e nomi, potevano essere tradotti meglio (quando la necessità di tradurli si fosse resa necessaria) e che alcuni dialoghi, potevano essere resi in modo più scorrevole. Nel complesso, mi sembra comunque che il risultato sia più che positivo.  

Dopo l’impatto innovativo, nel genere, costituito da I Giardini della Luna e dopo la maturità stilistica e narrativa raggiunta nei due capolavori La Dimora Fantasma e Memorie di Ghiaccio, Steven Erikson rallenta leggermente il passo con La Casa delle Catene che comunque resta un libro eccellente, in linea con l’elevato standard qualitativo al quale ci ha abituato l’autore canadese.