In sostituzione di Martina Grusovin, la nostra storica inviata al Far East Film Festival, quest’anno si è presentato il sottoscritto, che di cinema orientale conosce più che altro qualche titolo che riesce a essere distribuito nel nostro paese. Ma c’è sempre tempo per imparare e conoscere cose nuove. D’altra parte il festival ha sempre avuto un’ampia scelta di film fantastici, perché i registi orientali non sono affatto schizzinosi nell’approcciare il genere. E questo è testimoniato dalla carriera del super ospite di quest’anno, Tsui Hark, che al festival presentava proprio un film “di genere”, Legends of the Condor Heroes: The Gallants, che purtroppo era stato proiettato il 30 e non ho potuto recuperare. Ma andiamo con ordine.
Due giorni intensi
Arrivando a Udine solo il giorno 1° maggio, mi sono dovuto accontentare. Non ero riuscito a prenotare un posto per The Great Yokai War (Giappone 2005), di Miike Takashi, film ispirato al variegato mondo degli Yokai come concepito dal mangaka Shigeru Mizuki (Osaka, 1922 – Tokyo, 2015), al quale è dedicata la mostra Mondo Mizuki, Mondo Yokai, ancora in corso a Udine a Casa Cavazzini, della quale vi parlerò più avanti.
Al cortese punto accrediti mi è stato comunque consigliato di presentarmi lo stesso al cinema Visionario, perché all’ultimo momento potrebbero liberarsi dei posti per rinunce. E in effetti lì la cortese cassiera della biglietteria ha preso il mio nominativo, insieme a quello di altri irriducibili, e alla fine i posti c’erano. Pertanto ho cominciato proprio con questa proiezione l’avventura al festival.

Il film è del 2005, ed è un colorato tokusatsu. La classica avventura di un ragazzino predestinato, Tadashi, prescelto per diventare il Cavaliere Kirin, trovandosi al fulcro di una guerra tra fazioni di yokai. Da un lato quelli “cattivi” che vogliono vendicarsi dei torti subiti dagli esseri umani, dall’altro quelli “buoni”, che con gli umani vogliono convivere, nonostante in fondo concordino con il fatto che siamo dei fetentoni, ça va sans dire. Brandendo la Spada dei Goblin, Tadashi compirà il suo viaggio iniziatico salvando il mondo.
Eh sì, c’entra anche la birra Kirin, con un product placement assolutamente sfacciato. In sintesi, gli yōkai (妖怪) sono creature soprannaturali, fantasmi e spiriti del folklore giapponese, associati ai fenomeni naturali ma anche agli oggetti, quasi come una loro personificazione. Puro animismo. Per cui nella fantasia sfrenata di Mizuki, trasposta al cinema, ci sono yokai a forma di ombrello, di creature ibride, di belle donne, ma anche tessuti, muri, e chi più ne ha… Il film ibrida una computer grafica economica a tanto trucco ed effetti pratici, con un finale parossistico che ricorda anche i kaiju.
Per quanto avrei voluto vedere anche il seguito The Great Yokai War: Guardians, sequel del 2021 diretto dallo stesso Takashi, ho preferito tornare al Teatro Nuovo per seguire i film che ero riuscito invece a prenotare. L’idea è che non si viva di solo fantasy, e da appassionato di cinema volevo spaziare tra i generi che gli ultimi due giorni presentavano.

Pertanto mi sono ripresentato al nuovo per un filotto di 3 film: Papa (Hong Kong, 2024), di Philip Yung; Daughter’s Daughter (Taiwan, 2024) di Huang Xi; Cesium Fallout (Hong Kong, 2024) di Anthony Pun.

Papa è ispirato a un fatto vero: un quindicenne afflitto da turbe psichiche uccide madre e sorella, lasciandosi dietro mille interrogativi sul perché del gesto. Il film è da un lato la storia di un padre che cerca di comprendere come sia potuto succedere, interrogandosi su cosa abbia sbagliato, dall’altro anche il percorso di recupero e redenzione del figlio. Un film ben scritto e recitato, ma prolisso. Dopo un inizio che sembrava incentrato sulla sottrazione, i flashback sono diventati sempre più morbosi, fino all’inutile dettagliata scena splatter dell’uccisione, che nulla aggiunge al percorso drammatico ed emozionale del film, anzi ne appesantisce in modo didascalico la valenza.

Daughter’s Daughter è interpretato dalla superospite femminile del Fest, ovvero taiwanese Sylvia Chang, la cui carriera poliedrica, da attrice, regista, cantante, produttrice, talent-scout e tanto altro ancora, è stata premiata prima della proiezione con il Gelso d’Oro alla Carriera. Sono stati gli stessi Sabrina Baracetti e Thomas Bertacche, fondatori del festival udinese a consegnarglielo.

Il film è un dramma familiare. Chang interpreta Ai-xia, un’anziana donna alle prese con la madre con sintomi di demenza si trova dover decidere il destino dell’embrione che la figlia Zuer, morta con la compagna in un’incidente d’auto, aveva ottenuto da un intervento a New York, città dove vive un’altra figlia di Ai-xia, avuta molti anni prima. È un film in parte sulle conseguenze delle cose non dette, con protagonista una donna dura, una madre tossica per certi versi, che deve risolvere un dilemma morale. Cosa fare dell’embrione, che è agli effetti l’unica cosa concreta che le rimane di una figlia con la quale non è riuscita a coltivare un rapporto sano? Elaborazione del lutto e presa di consapevolezza andranno di pari passo, con la splendida interpretazione di Sylvia Chang. Anche in questo caso il film ha delle lungaggini, ma il percorso merita.

La serata di giorno 1 si è conclusa con un kolossal fracassone, Cesium Fallout (Hong Kong, 2024) di Anthony Pun, In pratica la versione hongkonghese e ancora più ipertrofica di film come L’Inferno di Cristallo. Un gruppo di temerari pompieri e un esperto di risanamento ambientale dal passato difficile si trovano a fronteggiare un gigantesco incendio una discarica di rifiuti elettronici gestita in modo illegale. A complicare le cose la scoperta che tra il materiale tossico c’è del cesio-137 che, se venisse raggiunto dalle fiamme, si diffonderebbe per tutta l’area di Hong Kong avvelenando con le radiazioni milioni di persone, rendendo l’intera area inabitabile. Grande spettacolo su grande schermo e personaggi tagliati con l’accetta, come atteso, per un film che lambisce superficialmente temi politici e ambientalisti, quanto basta per non annoiare, anche i 136 minuti di esplosioni e tensioni sono comunque una bella prova di resistenza per lo spettatore.

La mattina di giorno 2 mi ha visto di buon’ora al Teatro Nuovo per la versione restaurata di Shanghai Blues (Hong Kong, 1984) diretto da Tsui Hark, e avente per protagonista femminile Sylvia Chang. Film praticamente irreperibile fino al restauro in 4K dello scorso anno. Il film è una vera e propria fiaba realistica. Nel buio del bombardamento giapponese di Shanghai del 1937 un uomo e una donna s’incontrano mentre cercano riparo sotto un ponte e, solo al suono delle loro voci s’innamorano, promettendosi di reincontrarsi sotto lo stesso ponte a guerra finita. Dieci anni dopo, in una Shanghai ancora povera e ferita, i due si cercano senza successo, in una girandola di situazioni che mescolano sentimento, pochade, ironia, comicità e dramma con grande equilibrio nella gestione dei cambi di tono. Hark omaggia in un certo senso il neorealismo, dandone una versione che, anche nel momento più critico, non rinuncia al sorriso e all’ottimismo.

Nell’attesa del rush pomeridiano mi concedo la visita alla mostra Mondo Mizuki, Mondo Yokai. Tre stanze che raccontano la vita del mangaka Shigeru Mizuki (Osaka, 1922 – Tokyo, 2015), che non solo ha dato una visualizzazione a queste entità mitologiche, rendendole parte dei suoi manga, ma ha anche realizzato delle storie con ampi riferimenti autobiografici, in cui ha metabolizzato il trauma della sua partecipazione alla II Guerra Mondiale nell’esercito giapponese.
Un percorso breve ma denso, in un contesto, Casa Cavazzini, con una bella esposizione permanente che avrei voluto vedere meno di sfuggita.

La giornata è quindi proseguita con il film time travel romance Rewrite (Giappone, 2025) di Matsui Daigo, un’anteprima mondiale del Fest. Una storia d’ambientazione scolastica, nella quale una ragazza s’innamora di un giovane viaggiatore del tempo proveniente da 300 anni nel futuro. Come spesso capita con i viaggi nel tempo, le cose si complicheranno. In particolare quando sarà necessario chiudere il loop temporale venutosi a creare con un balzo della ragazza di 10 nel futuro per incontrare… se stessa! Altro non vorrei anticipare, sperando che il film in qualche modo arrivi in Italia e riprendere il discorso. Posso solo dire che gli sviluppi sono molto divertenti, esilaranti, anche se la soluzione del mistero è annunciata in modo abbastanza palese.

Il successivo Decoded (Cina, 2024) di Chen Sicheng, è un film che mescola dramma bellico, matematica, codici cifrati imperniato sulla sfida tra due matematici in una eterna guerra di intelligence. Produzione ad alto budget, con John Cusack nella parte di un matematico occidentale che scopre il talento per i codici cifrati del giovane Jingzhen, diventandone il suo mentore. Quando le tensioni politiche con gli USA porteranno il maestro a lasciare la Cina, i due matematici si troveranno contrapposti in una sfida a distanza, come una partita a scacchi, che vedrà Jingzhen impegnato fino allo spasimo a decifrare i codici ideati dal suo ex mentore.

The Square (Corea del Sud, 2025) di Kim Bo-so, racconta una storia di amore in Corea del Nord, primo film di animazione a chiudere la gara del Fest. È la toccante storia d’amore tra un diplomatico svedese in servizio a Pyongyang e una vigilessa. La storia è ovviamente osteggiata dalle autorità. L’esito è scontato, ma si intravede nello svolgimento del film un messaggio di speranza, ovvero anche in un contesto grigio e opprimente ci possa essere empatia e considerazione verso chi è “diverso”. Un messaggio di pace.

E di pace in fondo parla anche il film con cui si è concluso il programma delle proiezioni, il mash-up wuxia/j-pop di Ya Boy Kongming! The Movie (Giappone, 2025) di Shibue Shuhei, presentato sul palco del Teatro Nuovo da uno dei suoi protagonisti, Osamu Mukai con addosso il costume wuxia style del suo personaggio, il leggendario stratega dei Tre Regni Zhuge Kongming.

Il consigliere militare dell’antica Cina si ritrova catapultato senza alcuna logica spiegazione nel Giappone attuale e si ritroverà a essere lo stratega di una gara musicale J-POP.

La gara altro non è che la metafora della mitica battaglia dei tre eserciti. Ma Kongming sarà anche un mentore per una giovane cantante esordiente. Nel film la musica diventa veicolo di pace universale, perché in fondo anche un militare può essere il primi a desiderare la pace.
Prima che si spegnessero le luci sul Fest è stata quindi la volta dei premi.
I premi
Il Gelso d’Oro è stato attribuito a Her Story della regista Yihui Shao, il Gelso d’Argento all’hongkonghese The Last Dance – Extended Version di Anselm Chan e con il Gelso di Cristallo Like a Rolling Stone della regista Yin Lichuan.

Un altro premio per The Last Dance – Extended Version è stato attribuito dal pubblico, ovvero gli accreditati Black Dragon. I giurati della sezione opere prime hanno assegnato il Gelso Bianco a Diamonds in the Sand della regista filippina Janus Victoria. Il Gelso per la Miglior Sceneggiatura lo ha invece conquistato il thriller psicologico giapponese Welcome to the Village di Jojo Hideo. Una menzione speciale è stata attribuita, sempre tre le opere prime, al già citato The Square.
Conclusioni
Da neofita del Fest posso solo dirmi entusiasta, anche se il fitto programma delle proiezioni, unito al fatto che la maggior parte dei film era introdotta da una presentazione e a una lunghezza che nella maggior parte di casi ha superato le 2 ore per film (con punte di 156 minuti di Decoded), ha portato ogni slot a sforare. Il risultato è stato che molti film finivano a ridosso se non durante lo slot previsto per il successivo, costringendomi a corse precipitose per uscire dalla sala, andare a espletare qualche necessità fisiologica (mangiare, bere, altro…) e rientrare nella sala con corse impegnative.

Probabilmente vedere tutti i film è impresa da giovani e forti, ma credo di essermela cavata. La prossima volta provvederò a un vettovagliamento adeguato nello zaino, in modo da essere pronto a tutto. Magari il prossimo anno saremo quindi in due a raccontarvi il “nostro FEFF”, ossia non tutto il Fest, cosa impossibile per chiunque, ma quella piccola parte che ci siamo ritagliati con entusiamo, orgoglio e passione cinefila.
Arrivederci al 2026!
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