Degli altri racconti, di Limpieza in particolare, cosa puoi dirci?

Limpieza in origine aveva una stesura più ampia, quasi da romanzo, ma lo scorciai perché altrimenti spiccava troppo sugli altri, e anche perché con Ultimi Vampiri, io che in genere sono un eccessivo, volevo misurarmi con la sintesi imposta dal racconto breve. Non era un'impresa facile, perché lo sfondo storico comporta inevitabilmente descrizioni, spiegazioni, una certa ampiezza, insomma. Sintetizzare un clima, un'epoca, in poche pagine, a volte in poche righe, è davvero complicato. Però a me le cose semplici non sono mai piaciute, né scrivendo, né leggendo. Se prevedo dalla lettura di un capitolo cosa si racconterà nel successivo, o in un racconto come andrà a finire, lo mollo, se non altro per la sensazione fastidiosa di averlo già letto troppe volte. L'horror e il gotico devono sorprendere, non possono permettersi di essere "normali", devono persino nel tempo trasgredire le proprie stesse regole di genere, se no quel Oooh! di meraviglia e d'orrore che tutti i lettori cercano in questa narrativa, cede a un "ah, ecco… ci risiamo." Limpieza parla di zingari nella Spagna del Secolo d'Oro e dell'Inquisizione. Non sono gli zingari di maniera dell'Uomo Lupo. Non sono nemmeno gli zingari che tanto spaventano le persone che si ritengono "per bene" e che senza saperlo rimpiangono un'inesistente limpieza (cioè la purezza del sangue, fondamento di ogni razzismo). Ho cercato di dipingere con pochi tratti il fascino delle loro tradizioni e delle loro leggende. Oggi, se si parla di uno zingaro, non si pensa alla cultura. Né alla loro, né alla cultura in generale. Dopodiché non c'è da stupirsi se chi non sa apprezzare la cultura altrui, non apprezza nemmeno la cultura in generale.

In Ultimi Vampiri si nota una decisa predilezione per la scrittura in prima persona. Una scelta naturale o motivata?

Non si tratta in Ultimi Vampiri di un'unica prima persona, ma di molte prime persone, che insieme formano un coro. Il romanzo egotista in cui lo scrittore, attraverso la prima persona, mette in scena se stesso, in genere non mi piace, lo trovo un vuoto esercizio narcisistico. L'unico che ho adorato è stato Le Confessioni di Jean Jacques Rousseau, perché non è una semplice autobiografia, ma il racconto di un mondo e comunque… mica tutti sono Rousseau! C'è gente che scrive la propria autobiografia senza aver fatto un cazzo nella vita e senza neanche aver capito nulla di quel poco che gli è capitato. Scrivono per sfogarsi, o per  regolare dei conti con delle persone che gli stanno sulle palle. Questa non è narrativa. E il livello zero dell'immaginazione. È non saper vedere oltre la punta del proprio naso. Altre tre volte ho scritto in prima persona. Un piccolo romanzo su un comico (La fuga del cavallo morto) perché i comici da cabaret si esprimono sempre per monologhi. Il peggio deve venire, in cui a raccontarsi in prima persona è un morto (come nel capolavoro di Billy Wilder Il viale del tramonto).  Cioè il narratore è un fantasma. E infine Nelle tenebre mi apparve Gesù (in realtà avrebbe dovuto intitolarsi Io sono un fantasma ed è stato un errore cambiargli titolo, che tra l'altro è brutto, ma tant'è… capita di sbagliarsi) che è una satira surreale, anzi piuttosto psichedelica, dell'autobiografismo, perché lo scrittore protagonista, in piena depressione, riesce a ritrovare se stesso, non ripercorrendo e ricostruendo la propria vita, ma quelle degli altri: una serie di fantasmi che gli appaiono e lo trascinano con sé, in un viaggio delirante alla Scrooge. Questo corrisponde al sentire degli Indiani d'America. Un detto Lakota recita: "per trovare se stessi, bisogna indossare i mocassini di un altro."  Però ammetto che quel romanzo, che pur amo molto, non mi è riuscito bene, perché comunicare agli altri il proprio mondo interiore, i fantasmi che abitano la propria mente, risulta troppo enigmatico oggi. In passato, i fantasmi erano più condivisi. Oggi ce ne sono troppi in circolazione e ciascuno è così affezionato ai suoi, da non riuscire a vedere quelli degli altri. Ho fatto però delle letture performance di parti del romanzo, insieme a Patrizio Fariselli (ex Area) al piano. Nella lettura, sono stato attento a sonorizzare il testo, a ritmarlo, cantando anche dei brani d'epoca tra un passaggio e l'altro. In quelle occasioni il pubblico ha gradito molto e si è appassionato. Insomma: quello è un romanzo che si gode di più se viene recitato. È più un testo che un romanzo. Scusate la digressione. Per tornare al tema, il pronome io, è vuoto, in quanto non designa nulla. Lo slittamento del pronome in sostantivo (Ego) designa invece un'eccessiva autoreferenzialità. Il fatto che la mia prima persona sia corale (e dunque esprima un'identità multipla e collettiva) oppure fantasmatica, esprime una critica dell'Io per come lo si intende nell'uso comune. Letterariamente, al di fuori di questo senso, è un espediente piuttosto scomodo, perché impedisce di staccare da un personaggio all'altro, da una situazione all'altra, il che comporta il rischio non solo di una narrazione unidimensionale, ma anche di appiattimento ritmico, soprattutto in romanzi dove l'azione e i "colpi di scena" (molto spesso costituiti da mutamenti del punto di vista) hanno un notevole peso.

Gianfranco, grazie. Restiamo in attesa dei tuoi prossimi progetti…

Grazie a voi, per questa intervista, che spero di non aver pregiudicato con risposte troppo lunghe, ma quando si ragiona di queste cose, non si può rispondere "Chanel n.5".

Questa intervista realizzata in collaborazione con la Writers Magazine Italia. Se volete sapere di più su Gianfranco Manfredi, e in particolare sui suoi fumetti e sul suo rapporto con la Storia narrata, tenete d’occhio le prossime uscite della WMI, dove verrà pubblicato il resto della nostra conversazione con l’autore.