Nord Est di una futura Italia post atomica.  Nei resti fortificati di una città dominata da una sparuta quanto feroce oligarchia di militari e legislatori, c’è la Scuola del Mattino: un’accademia che fornisce il braccio armato e la carne da macello per difendere il territorio.

Fra i tanti militi troviamo Cleffi, allenato alla lotta e alla sopravvivenza più brutale, per il quale è arrivato il giorno di entrare nelle pattuglie esterne.

Cleffi sa, dai racconti dei veterani, cosa lo attende “fuori”: sangue, scontri e violenza. A questo è stato ben addestrato. Quello che non si aspetta è una magia antica quanto potente, riapparsa nei cimeli –più spesso rottami - del mondo pre-olocausto.

Gli antichi grimori sono adesso ebook reader, vecchi walkman o computer portatili a batterie, mentre nei quartieri abbandonati e sui resti di palazzi sventrati fioriscono strani simboli e un nome, ripetuto più e più volte. Cleffi lo vedrà scritto sul muro di una stanza deserta, fra pentacoli, candele ancora accese e il frullo d’ali di una civetta bianca: GOETIA.

Forse l’ultima soluzione rimasta.

Goetia di Riccardo Coltri è un fantasy post apocalittico dall’impatto cinematografico.  L’antefatto è un rituale eseguito con cura, un sacrificio di sangue e una comunione, attraverso simboli del passato tracciati nella distruzione di un mondo di là da venire ma somigliante alle realtà degradate del nostro presente.

La storia è lineare, narrata in terza persona attraverso gli occhi del protagonista: Cleffi è un ultras che si distacca dalla massa, un non- eroe che si ribella a ciò che lo circonda, si pone domande e cerca di darsi risposte. Ma non tutte sono quelle giuste, perché la sua è in realtà una storia di possessione.

La Goetia è una magia antica, mai scomparsa del tutto, che parla di demoni: settantadue, per la precisione, menzionati nel grimorio seicentesco Lemegeton (Piccola Chiave di Salomone) assieme ai vincoli per incatenarli e i rituali per evocarli.

Da Bael ad Andromalius, passando da Beleth e Asmodeo, queste entità hanno poteri enormi, aspetto o capacità antropomorfe e per la maggior parte sono o si tramutano in esseri alati.

Non è un’assurdità quindi la canzone “Volare” trovata da Cleffi nel walkman, e nemmeno essere seguito/protetto da una civetta e un serpente, viste le caratteristiche di alcune entità presenti nel suddetto testo.

Tuttavia, per questo romanzo non si può parlare di high fantasy, ma piuttosto di “low”. La magia descritta è più strisciante che eclatante e il soprannaturale - molto dark e assai poco fiabesco, tipico dell’autore - si innesta in un’ambientazione quasi sempre dominio della fantascienza: l’armageddon e il dopo-armageddon, associato in molte opere a una speranza di rinascita.

Qui c'è una differenza: non troviamo lo scontro bene/male catartico (L’ombra dello scorpione, Stephen King), né una ripresa in nome del senso di patria (Il giorno della rinascita, David Brin), né una resurrezione affidata alla Bibbia (Codice Genesi, Michael Drosnin). Non troviamo nemmeno la morte di Dio presente in La Strada di Cormac McCarthy, o la nascita di una razza ultraumana (Il Passaggio, Justin Cronin) ma piuttosto una nuova e inquietante genesi, tutta da scoprire.

Lo scenario è un day after fatto di rovine e degrado, dove i più anziani ricordano ancora il “prima” e i più giovani ne hanno conoscenza frammentata.

La storia di Coltri non è epica e non è eroica, offre sfondi circoscritti: quel che resta di una provincia - con residui del mondo di prima ma già regredita “ai bastoni e alle pietre”- e dei suoi abitanti. Ovvero bande armate con vecchi fucili, coltelli e balestre, rivoltosi e seguaci di sette che si contendono un territorio ristretto in cui il tempo non ha ancora avuto modo di spazzare via i rifiuti del passato. E poi il vuoto: nelle rovine disabitate, nelle strade deserte, nel silenzio sotto il sole, nella speranza fatta polvere.

Lo stile dell’autore è incisivo come sempre. Siamo lontani dalla struttura complessa di La corsa selvatica e dalle spigolosità di Zeferina, la narrazione è lineare e semplice e i dialoghi si sono dilatati rispetto all’essenzialità dei romanzi precedenti, ma tutto questo non addolcisce la storia: Il risultato “a pelle” è una sensazione di ansia impotente, perché sotto l’indubbia violenza delle situazioni narrate se ne percepisce un’altra, più nascosta e minacciosa.

Ci sono diversi personaggi attorno al protagonista, ma definirli interpreti è forse eccessivo: si tratta di figure fumose che appartengono più all’ambientazione che al vivo della storia e la loro funzione è di spalla al breve ma denso viaggio “di crescita” di Cleffi.

Questa sproporzione di scavo psicologico è uno dei limiti del libro. Un altro “peccato veniale” è nel registro della narrazione, a volte quasi sottotono: se fosse un film sarebbe quasi tutto in bianco e grigio invece che viola, nero e cremisi come i precedenti tomi dell’autore.

Infine, qualche perplessità suscitano le conoscenze attribuite al protagonista, a volte sul filo del rasoio per quanto riguarda la coerenza. 

Tuttavia, il romanzo ha due punti di forza: il prologo e soprattutto il finale. Una delle capacità del vero autore è far visualizzare la scena nella mente del lettore, e l’incipit di Coltri è un preludio scenografico d’impatto, culminante con l’immagine di un nome scritto a sangue: il titolo del libro, che resta impresso a colori come quello di un kolossal.

Il finale naturalmente non può essere svelato, ma qualche domanda è concessa: il non–eroe di questa storia, alla fine ha ottenuto la sua vittoria? E se la risposta è un sì, cosa sta vedendo arrivare alla fine della battaglia?