Che cos'è un dio?

Un essere soprannaturale? Una proiezione dell'interiorità umana? Oppure una creazione dell'uomo che viene usata da alcuni per sfruttare le masse?

Forse soltanto quello che gli uomini vogliono vedere, quello in cui vogliono credere: un ideale, un valore o quella speranza cui aggrapparsi quando si ha bisogno d'aiuto. E per esso si è disposti a dedicarsi anima e corpo, a fare sacrifici, vivendo nell'attesa che quanto fatto prima o poi faccia avere dei frutti, dia compimento alla realizzazione dei propri desideri; una divinità in tal caso sembra essere una sorta di lampada d'Aladino e proprio per questo le istituzioni religiose che sorgono attorno a queste figure così grandi (e allo stesso tempo così distanti dalle persone comuni) accumulano grandi ricchezze e grande potere contando e sfruttando il bisogno della gente.

Brandon Sanderson attraverso il fantastico mette in mostra tale aspetto delle istituzioni religiose, i cui membri tanto spesso in passato si ritenevano il tramite tra le divinità e i comuni mortali: solo attraverso di loro le persone potevano conoscere la volontà del dio, perché solo a loro parlava; la gente per fede doveva accogliere il messaggio rivelato di un dio che non poteva né vedere né sentire. Gente a cui era vietata la lettura dei testi sacri: una conoscenza preclusa, perché dalla conoscenza viene potere, come dall'ignoranza viene condizionamento; un'ignoranza che basandosi sul mistero tiene celati segreti che se rivelati potrebbero far crollare il costrutto di macchinazioni politiche che l'istituzione religiosa è. Un ente che ha reso la divinità mezzo per accumulare potere, sfruttare la sua immagine per condizionare la popolazione, tenendola sotto il giogo della paura.

E' su questo che Sanderson per buona parte di Il Conciliatore costruisce un'atmosfera di complotti e sospetti, facendo provare diffidenza verso il clero e tutto quanto è legato a esso. Ma a Sanderson piace giocare sul fatto che le cose non sono quello che sembrano, che la verità non è immediata, ma va ricercata: occorre scavare, togliere gli strati di dicerie e credenze nate dalla fantasia e dalla superficialità delle persone. Lo scrittore americano si diverte a invertire le parti, a ribaltare le situazioni, trascinando nel vortice di cambiamenti che si hanno capitolo dopo capitolo, alle volte spiazzando, alle volte sorprendendo, come succede fin dalle prime pagine del romanzo quando il re di Idris, dopo una pianificazione e preparazione durata vent'anni, invia a T'Telier, la capitale di Hallandren, il regno con cui cerca di non entrare in guerra, la figlia più piccola invece della maggiore, quella la cui vita è stata sacrificata in preparazione del momento in cui sarebbe stata data in sposa al Re Dio; un matrimonio che nell'intento doveva servire, se non a evitare, almeno a rimandare un conflitto che avrebbe spazzato via il piccolo regno tra le montagne.

Così l'istintiva e ribelle Siri si trova a prendere il posto della razionale e ponderata Vivenna perché il padre, non potendo venire meno alla responsabilità che ha verso il suo popolo, ha preso una decisione seguendo il cuore, facendo la dolorosa scelta di proteggere la figlia che amava di più, sacrificando quella con cui non è mai riuscito a entrare in sintonia. Una dimostrazione di come la vita sia imprevedibile e di come in base a una semplice decisione l'esistenza di diversi individui possa cambiare in un attimo; la logica, la pianificazione, per quanto possono sembrare perfetti troveranno sempre a intralciare il loro cammino quell'elemento che è tipico dell'essere umano: la libertà di scelta, la volontà di seguire il proprio essere.

Brandon Sanderson
Brandon Sanderson
E un elemento tipico di questo romanzo, come già visto nella saga di Mistborn, è il dualismo, rappresentato non solo dalle due principesse, ma anche dagli stili di vita di Idris e Hallandren: da una parte la morigeratezza del regno delle montagne con le tinte sobrie degli abiti e le abitazioni spartane; dall'altra l'opulenza dei palazzi della capitale e la miriade di colori sgargianti che permeano ogni cosa. Due popoli non solo con costumi, ma anche con fedi differenti: uno che la ripone in Austre, il Dio dei Colori, un'entità che nessuno ha mai visto, e l'altro nel Culto dei Ritornati, i fondatori dei Toni Iridescenti, un pantheon di divinità in carne e ossa che vive nell'agiatezza e nell'ozio, riverite e onorate come bambini viziati. Due modi d'intendere la religione che sono come le facce di una stessa moneta, ma che non si guardano mai degli occhi a seguito di una frattura che ha causato una separazione difficile da sanare, che risale a un passato lontano. 

Una frattura come quella che c'è tra Denth e Vasher, che ha causato tra i due un conflitto che si protrae da anni, figure che si muovono tra le vie della città facendo ognuno mosse e contromosse in un gioco dove i piatti della bilancia sono in perenne bilico tra pace e guerra e fino all'ultimo non si riesce a capire chi stia tessendo la trama degli eventi. Lo scrittore spiazza, dimostrando che non bisogna mai fidarsi delle apparenze, di stare attenti a quali sono volti sinceri e quali maschere indossate, che non sono i gesti eclatanti e visibili quelli che bisogna temere, bensì quelli che si celano nella normalità, che non si discostano dalla media, perché è quello che non attira l'attenzione ciò che può dare i risultati migliori. In teoria un qualcosa d'ovvio, che tutti conoscono, ma che nella pratica non è di facile attuazione e il lettore può rimanerne sorpreso, nonostante l'autore abbia messo lungo il percorso indizi e segnali di quanto sta succedendo e che solo con il senno di poi appaiono chiari; solamente sospettando di tutto e di tutti si sarebbe riuscito a prevedere la piega che conduce alla risoluzione della storia. 

Una storia che non è complessa, ma che è ben orchestrata, anche se in un paio di punti può lasciar perplessi. A esempio sul fatto che Vivenna dovrebbe essere più diffidente, più attenta, ritrovandosi in un ambiente ostile, visto che per anni è stata preparata al compito d'essere la consorte del Re Dio, conoscendo sì l'etichetta di corte, ma anche come muoversi con la politica di un impero: una conoscenza che avrebbe dovuto conferirgli maggiore scaltrezza e prudenza. Ma una preparazione solo teorica non fa acquisire quell'esperienza che si apprende sul campo e l'aver vissuto in una nazione dalla vita semplice, senza tanti artifizi e macchinazioni può richiedere un prezzo da pagare.

Proprio questo scotto, sia al personaggio sia al lettore, serve però a capire che la comprensione delle cose può avvenire solo se cadono pregiudizi e preconcetti. E se ammonisce a stare attenti a chi si dà fiducia, dato che occorre conoscere una persona prima di fidarsi di lei, allo stesso tempo avverte che non si può vivere sempre nella diffidenza, vedendo complotti ovunque; se ci sono delle porte che viene impedito d'aprire e se certe scelte sono state fatte, c'è una buona ragione, come può essere per la preclusione alla lettura di testi sacri o la ragione per cui il Re Dio non parla mai in pubblico, che vanno oltre la sacralità e l'aura divina che permea certi elementi.

Il Conciliatore critica sì gli enti religiosi mostrando quanto grande sia il loro potere temporale, essendo costrutti d'equilibri politici e manipolazione e sfruttamento delle masse, ma esorta anche a non abbandonare la fede e la speranza di cui la religione parla perché queste sono cose che la vera spiritualità dona e che possono essere trovate solamente in sé stessi, senza dover seguire dogmi, comandamenti. Così come solo dentro di sé si può trovare la risposta a ciò che si è e qual è lo scopo dell'esistenza che è stata data: sacerdoti, guide, insegnamenti possono essere d'aiuto, ma sono solamente dei mezzi, dei sostegni in questa ricerca interiore che può essere effettuata unicamente da soli, come instancabilmente non fa che ripetere Llarimar, sacerdote di Lievecanto l'Audace, al proprio dio. 

Un dio, quello del Coraggio, che non crede in sé stesso e nella sua natura divina e che cerca con ogni argomentazione di convincere gli altri, compreso il suo clero e i suoi fedeli, che lui non è una divinità, ma solo un essere egoista e inutile che vive nell'ozio e si fa servire e adorare senza avere alcun potere se non quello di poter in tutta la sua esistenza esaudire il desiderio di una sola persona; un potere che potrà essere usato solo in un'occasione. Senza mai prendersi sul serio, gigioneggiando all'interno della Corte degli Dei tra spettacoli in suo onore, Offerte e l'ascolto delle Suppliche dei fedeli, continua a scervellarsi sul perché dopo essere morto è divenuto un Ritornato, rimandato indietro dai Toni Iridescenti per compiere una missione che gli è oscura, di cui riesce a percepirne solamente l'ombra attraverso i suoi sogni. E nel mentre cerca di arrivare a scoprirla, per rimanere in vita, deve assorbire ogni settimana il Soffio di una persona, facendola divenire una Grigia, una Smorta, una Sbiadita, un essere privato della propria essenza vitale e tuttavia capace di continuare a vivere un'esistenza all'apparenza normale. 

Non è un caso che simili individui vengano definiti in questo modo dato che nel mondo di Il Conciliatore il colore è vita: più è intenso e sgargiante, maggiormente la rappresenta. E maggiore è la forza che conferisce alla capacità di Risvegliare attraverso il Soffio, come possono fare gli individui che sono Risveglianti, capaci di animare oggetti e morti, creando i Senzavita. Qualcuno potrebbe definire il Soffio come l'anima, dato che tutti lo possiedono fin dalla nascita; ma si sa che senza anima il corpo non può vivere, mentre invece una persona può privarsi del Soffio e continuare lo stesso a esistere, vedendo cambiata la percezione che ha del mondo, come se esso risultasse slavato. Percezione che cambia in maniera opposta, se aumenta la quantità di Soffio posseduta da un individuo, come accade ai Ritornati e ai Risveglianti che raggiungono livelli differenti tra le Elevazioni, permettendogli di avere una maggiore percezione e conoscenza del mondo. Il Soffio non è quindi solo una parte dell'essenza che permea la vita e un potere, ma anche una ricchezza grazie alla quale si possono schiudere cancelli di vie che altrimenti sarebbero precluse.

Brandon Sanderson dà un'altra prova, se ce ne fosse ancora bisogno, della sua abilità letteraria, sia come stile, sia come capacità di caratterizzare personaggi e tessere le file della trama. Un'opera intelligente, ma priva dei toni cupi che avevano caratterizzato la serie di Mistborn, capace di raccontare una storia epica, anche se non d'ampio respiro come La Via dei Re, dato che in questo caso si tratta di un romanzo autoconclusivo e non di una decalogia. Una lettura capace di far riflettere mentre strappa un sorriso soprattutto grazie alla figura di Lievecanto che con il suo modo ironico di fare (ma non superficiale dato l'intensità con il quale vive il suo essere) ricorda Kelsier, uno dei personaggi meglio tratteggiati dalla penna dello scrittore canadese. Senza contare che con Sanguinotte Brandon strizza l'occhio a Michael Moorcock e alla sua famosa Tempestosa: certo non ha la capacità di risucchiare le anime di quanti uccide e di trasferirle come energia all'interno del corpo di chi la impugna, ma è anch'esso una spada senziente (e pure perniciosa, dato che come ogni potere ha un prezzo da pagare), creato per essere uno strumento capace di distruggere i malvagi. Un compito nobile, ma capace di rendere difficile il suo discernimento: come si fa infatti a giudicare se un individuo possiede un animo toccato o pervaso dalla malvagità? Una domanda a cui il suo creatore cerca ancora soluzione, proponendola a chi scorre le pagine che hanno narrato una storia dai molti colori e con un soffio incisivo.