I Pirati dei Caraibi di Valerio Evangelisti non sono come Johnny Depp o Orlando Bloom. Cartagena è il terzo romanzo che lo scrittore bolognese dedica ai Fratelli della Costa dopo Tortuga (2008) e Veracruz (2009) e ormai penso che tutti avranno le idee chiare su come vengano caratterizzati.

I pirati di Evangelisti sono amorali se li guardiamo dal punto di vista della cosiddetta "civiltà", ma hanno molto più rispetto delle regole che si sono dati all'interno di quanto non ne abbiano coloro alle quali delle leggi sono state imposte dall'alto.

Sono un vero esempio di democrazia interna e meritocrazia, visto che i loro comandanti comandano finché godono del consenso della ciurma.

Insomma non sono "buoni", ma definirli "cattivi" sarebbe un errore tanto quanto definire tale un predatore come un leone o uno squalo.

Quando li ritroviamo sono però quasi addomesticati, hanno abbandonato la Tortuga e vivono stanziali a Hispaniola, ma su sollecitazione nientemeno che dell'ammiraglio De Pointis, emissario di Luigi XIV, ossia il Re Sole, vengono chiamati a una ultima gloriosa impresa: la conquista della colonia spagnola di Cartagena.

Attirati dall'equa spartizione del bottino, sotto il comando del governatore Ducasse, l'eterogeneo esercito di avventurieri intraprenderà quest'avventura con la consapevolezza che in ogni caso il proprio tempo sta per finire, e tanto vale bruciare in un lampo che spegnersi lentamente.

Non è un'alleanza che si basa sulla fiducia reciproca quella tra i parrucconi francesi e i pirati, prova ne è che De Pointis infiltra tra i pirati come comandante un suo uomo fidato, Martin d'Orlhac, dal passato turbolento.

Sarà lui il punto di vista quasi alieno sul mondo dei Pirati, del quale però subisce il fascino, trovandolo simile a quella Corte dei Miracoli dei ladri parigini della quale ha fatto parte.

Mentre gli eventi si succedono, tra battaglie di terra, di mare, tradimenti, reciproci inganni, a complicare la faccenda arriva ovviamente una donna fatale, che affascina il povero Martin sin da subito. Si tratta di Donna Teresa, moglie di Don Sancho Imèno, comandante spagnolo.

Che la donna sarà fonte di guai sembra non capirlo solo Martin, irretito oltre ogni logica misura, confuso dal caldo, dal fascino che i pirati esercitano su di lui, dal constatare quanto meschini siano invece i suoi capi, espressione di una nobiltà che non ha onore. Siamo nel 1697, la Rivoluzione Francese è ben lontana, ma la decadenza e l'indifferenza alla vita reale c'era giù tutta.

In un quadro di personaggi a loro modo travolti, prigionieri di ruoli confusi in un tempo che sta cambiando come i Pirati e lo stesso Martin, o il mellifluo De Pointis, l'unico personaggio il cui percorso è coerente è proprio Teresa, le cui azioni sono appaiono sempre logiche e mirate all'intenzione di sopravvivere alla bufera.

Con una prosa scorrevole, che stavolta non inciampa sulla terminologia marinaresca, ormai usata con ottimo senso della misura, siamo davanti a una degna conclusione per il ciclo piratesco. Un romanzo con capitoli brevi e avvincenti che si leggono in veloce successione con piacere.

Dimenticate le banali logiche bene/male, Evangelisti non affibbia ad alcun personaggio un qualche allineamento positivo o negativo. Inoltre non si può negare che oltre a Teresa, Evangelisti faccia vincere il premio della coerenza anche ai pirati, perché anche nel momento di maggiore incertezza, rimarranno fedeli a un progetto di vita.

Il finale è infatti l'apoteosi di tale coerenza. Non ve lo posso ovviamente anticipare, ma spero di non dirvi troppo che è simbolico di quanto sangue e di quanta sofferenza comporti "la nascita di una Nazione", e soprattutto, di illuminare in modo inequivocabile su quali siano i cosidetti "valori" che la muovono ancora oggi.