Nel primo atto del film, il professore Chiwetel Ejiofor e l’infermiera Karen Gillan sono una coppia separata da tempo ma, poiché sembra avvicinarsi l’apocalisse, cercano conforto l’uno nell’altra. Internet ha smesso di funzionare, ci sono di continuo catastrofi planetarie e il mondo è al collasso. In questo caos, all’improvviso e in modo assurdo, appaiono strane pubblicità celebrative con protagonista un certo Chuck che nessuno conosce. Nel secondo atto il protagonista è proprio Chuck che, durante una trasferta lavorativa dovuta al suo lavoro di contabile, decide di scatenarsi in un ballo sfrenato a suon di batteria suonata da un’artista di strada, coinvolgendo una ragazza sconosciuta. Nel terzo atto Chuck è un bambino che ha appena perso i genitori e per questa ragione si trasferisce nella casa vittoriana dei nonni. L’ambiente è sereno e la nonna gli insegna a danzare, ma c’è una misteriosa soffitta chiusa a chiave da un lucchetto in cui il bambino non può assolutamente entrare.

Dopo il successo delle serie televisive per Netflix The Haunting, Midnight Mass e La caduta della casa degli Usher, Mike Flanagan torna al cinema. Al 2019 risale il poco convincente Doctor Sleep, successivo a Il gioco di Gerald, entrambi i film tratti da storie di Stephen King, così come questo The Life of Chuck, che prende ispirazione da un racconto contenuto nella raccolta Se scorre il sangue. In questo caso, più che all’horror cui Flanagan è evidentemente interessato, è a una dimensione spirituale che il film ambisce, pur utilizzando alcuni elementi tipici del suo cinema. L’apocalisse, la malattia, la perdita e l’accettazione non passiva ma attiva del destino sono i temi centrali e potenzialmente affascinanti del racconto. In parte grazie alla suspense e in parte grazie alla ricostruzione cronologica che lo spettatore è costretto a fare a posteriori (i tre atti non sono disposti nella giusta sequenza temporale), The Life of Chuck ha dei momenti interessanti, ma non sufficienti a non far slittare il film in un trattato verboso di filosofia.

La presenza di Flanagan si avverte nell’uso degli ambienti domestici di Chuck, che non sono mai semplicemente scenografie: la casa diventa un luogo vivo, pronto a stringerti in un abbraccio rassicurante ma, allo stesso tempo, a spalancarsi come soglia enigmatica, capace di suscitare meraviglia e paura. È una poetica che richiama immediatamente le atmosfere di The Haunting, dove le mura familiari si caricavano di memorie e presenze invisibili. Anche il cielo diventa un protagonista silenzioso e magnetico. Quegli spazi sterminati che già avevano segnato Midnight Mass tornano in The Life of Chuck, occupando per più di una volta gran parte dell’inquadratura.

Il problema quindi non sta nella messa in scena, ma nella sensazione che Flanagan non sia riuscito ad andare a parare da nessuna parte, mischiando un po’ troppe carte – dramma, fantascienza, musical e horror – e appoggiandosi sul carisma di Tom Hiddleston e altre sue vecchie conoscenze come Kate Siegel e Samantha Sloyan, senza però nessuna delle idee innovative che invece avevano caratterizzato le sue creazioni televisive. Anche quella che dovrebbe essere la filosofia della pellicola, “contenere moltitudini” – frase che si riferisce all’espressione resa celebre dal poeta americano Walt Whitman – rischia di essere banalizzata a un bigliettino da Baci Perugina. Bella la messa in scena, ma The Life of Chuck, proprio per il suo voler fare filosofia senza una base convincente, è un film che gira a vuoto su se stesso.
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