Nel 1982 Bruce Springsteen decide di deviare dalla rotta naturale che lo avrebbe portato a Born in the U.S.A. e pubblica invece l’album Nebraska, registrando da solo, su cassetta e con un registratore a quattro piste, tracce spoglie e cupe, nate per sé, lontane dalle aspettative commerciali. La sua casa discografica dopo il successo di The river vorrebbe subito un nuovo LP per "battere il ferro finché è caldo" ma il cantautore sembra perdersi tra la voglia di proseguire una carriera in ascesa e il desiderio di raccontare qualcosa di autentico, che prenda spunto dalle proprie esperienze familiari. Le radici proletarie, il rapporto difficile con un padre ubriacone ma pure a suo modo affettuoso, il desiderio di difendere la madre e le donne che come lei si trovano a gestire i figli in una situazione precaria, portano una profonda crisi in Springsteen fino ad arrivare a una vera e propria depressione.

Springsteen – Liberami dal nulla, tratto dal libro Liberami dal nulla Bruce Springsteen e Nebraska di Warren Zanes, mette in luce un capitolo cruciale della biografia del Boss: gli anni in bilico tra 1981 e 1982, in cui l’artista sceglie l’isolamento per dare vita a Nebraska, un album acustico e crudo che rompe con le aspettative. Questo biopic che vede alla regia Scott Cooper era inevitabile dopo il successo di altre pellicole con protagoniste star della musica, da Bohemian Rhapsody a Rocketman fino ai vari film su Elvis Presley degli ultimi anni. Questa volta il racconto non vuole essere esaustivo dell’intera vita di Springsteen ma mostrare il processo creativo e personale, in una fase della sua carriera intermedia e la crisi che lo portò alla depressione.

Il problema maggiore della pellicola, che è poi lo scoglio su cui s’incagliano quasi tutti i biopic, è di essere rappresentativo (e interessante) esclusivamente per i fan di Springsteen. A parte la presenza di Jeremy Allen White che interpreta magistralmente il Boss, il film non può vantare né scelte di regia particolarmente brillanti, né un’idea di fotografia originale, né tantomeno una storia che abbia una qualche valenza universale o metaforica di altro che vada oltre la biografia stessa. Se poi si aggiunge la scelta di mostrare il passato del piccolo Bruce in bianco e nero, con raccordi al presente che si limitano a sovrapporre un’immagine tra ieri e oggi, si capisce meglio quanto la ricerca di una minima originalità sia assente. Stesso dicasi per quanto riguarda il tema della depressione che avrebbe potuto essere la chiave d’accesso per uscire dal biografismo spicciolo ma che viene raccontata senza alcun approfondimento, con un salto temporale quasi censorio che niente dice su come siano andate le cose.