Vorrei dare cinque stelle a questo libro, se fossi un sentimentale lo farei. Quattromila pagine, scritte in ben trentaquattro anni, non sono affare da poco, un’impresa che pochi scrittori sono riusciti a compiere portandosi dietro fino alla fine svariati milioni di lettori. Un’epopea tra le migliori mai scritte, qualcosa che mi accompagna da quando sono nato e che ora si conclude in un finale che è in assoluto il migliore che Stephen King avesse potuto concepire e che i lettori potessero aspettarsi. Cinque stelle, però, che non posso permettermi, se quella che volete è una recensione onesta. Nemmeno quattro, ahimè. Così come il progetto de La Torre Nera era diventato qualcosa di troppo grande e complesso affinché qualsiasi scrittore potesse continuare a governarlo senza sbavature, così questo capitolo conclusivo rappresentava un’impresa troppo difficile per uno Stephen King che non ha resistito all’impulso di coinvolgersi fino a diventare egli stesso un personaggio di primaria importanza. Una saga che chiedeva di essere conclusa in un momento in cui la conclusione era la cosa più improba da realizzare. Il risultato, quando si chiude questo tomo di oltre 1100 pagine, è una sensazione di appagamento misto a delusione.

Consentitemi di non dire assolutamente niente della trama, qualcosa che in questo caso riveste un’importanza assai ridotta. Del resto tutta la storia, dal momento in cui il famigerato uomo in nero fugge nel deserto fino alla sua conclusione, non è mai stata il punto di forza. Sono piuttosto lo stile, le singole situazioni e soprattutto i personaggi che hanno reso la serie avvincente e a tratti irresistibile.

Stile, situazioni e personaggi, tre elementi di cui questo settimo libro non può certo vantarsi. Senza il coinvolgimento psicologico con cui qualsiasi lettore arrivato fin qui segue la trama, il libro apparirebbe mediocre, degno del peggiore Stephen King.

L’autore è tornato eccessivamente logorroico, alternando momenti davvero ben scritti a lunghi e noiosi indugi senza senso, che si fa fatica a digerire. Paradossalmente, poi, ci sorprende liquidando in modi rapidi e superficiali situazioni complesse che meritavano senz’altro maggiore approfondimento. Nodi focali dell’intera vicenda scivolano via lasciando l’amaro in bocca per la faciloneria con cui l’autore decide di accantonarli, mentre vicende che potevano essere evitate (che dovevano essere evitate, visto il numero di pagine) spezzano il ritmo nei momenti meno opportuni.

La canzone di Susannah, in fondo, si era concluso con un non-finale, ed era insolitamente corto per essere un romanzo di King. Le prime duecendo pagine di questo settimo capitolo avrebbero senz’altro trovato migliore collocazione alla fine del precedente. Il re del brivido, appellativo che sta sbiadendo sempre più col tempo, appare confuso, a tratti sembra non sapere come andare avanti. Il romanzo, stilisticamente parlando, è il risultato di un’evidente mancata pianificazione del lavoro. Troppa carne al fuoco, troppa fretta di risolvere tutto, eppure incapacità di tirare dritto verso la fine. Difetti macroscopici, come il ricorrere frequente e poco opportuno a quel "deus ex machina" che tutto risolve, o come il far presente troppo spesso al lettore che quella che sta leggendo è solo una storia e non un mondo reale in cui immergersi, spezzando di fatto quella consapevole sospensione dell’incredulità, pesano sul romanzo come macigni e a tratti rischiano di farlo scivolare verso un’insufficienza inesorabile.

Eppure La Torre Nera è anche un libro pieno di momenti indimenticabili, scritti magistralmente, che restano impressi nella mente per ore e giorni dopo averli letti. Soprattutto da metà in avanti, quando l’autore inizia a tirare le fila in modo meno sotterraneo. Un libro schizofrenico, verrebbe da dire, scritto un po’ con la mano destra e un po’ con la sinistra, un po’ con il cuore e un po’ con la mente. Un libro, alla fine, impossibile da classificare, che meriterebbe il massimo dei voti per alcuni sprazzi di rara genialità e allo stesso tempo il minimo per alcuni scivoloni inconcepibili per uno scrittore navigato come Stephen King.

Certo, chi è arrivato fin qui non può esimersi dal leggerlo, e certamente ne trarrà emozioni di ogni tipo. Personalmente rimarrò con un certo amaro in bocca, per aver visto la fine delle avventure di un pistolero che, oltre trent’anni fa, era un personaggio completamente diverso. Ma si sa, il tempo passa e tutto modifica. È successo a me lettore ed è successo al Roland Deschain personaggio. Quel che è più duro da accettare, è successo allo Stephen King scrittore.

Una nota di demerito alla Sperling & Kupfer per l’edizione. Certo a causa della fretta di pubblicare il libro, la cura non è la solita che contraddistingue la casa editrice. Troppi refusi, spesso lampanti, e una traduzione non degna del miglior Tullio Dobner (di sicuro messo troppo sotto pressione) rendono il prodotto decisamente inferiore all’edizione originale. Questa volta, com’è ovvio, l’autore non c’entra niente e la considerazione non influisce sul giudizio.