Sei di sette, la grande avventura dell'ultimo Cavaliere è ormai a un passo dalla conclusione. Avete già letto le duemilacinquecento pagine precedenti? Perché se non lo avete fatto forse è il caso che vi mettiate in pari, prima di continuare nella lettura, se vi è gradito (come direbbe lo stesso Roland di Gilead). Ah, non fatelo solo perché questa recensione potrebbe rovinarvi qualche sorpresa, fatelo soprattutto perché sono duemilacinquecento pagine di rara bellezza.

La prima considerazione che mi viene in mente, dopo aver finito di leggere La canzone di Susannah, è che Stephen King ne sia letteralmente drogato, tanto da subordinare la sua stessa esistenza al destino della Torre Nera. Questo, almeno, è il mio modo di interpretare il ruolo che si è ritagliato all’interno della storia, quel ruolo che si fa fatica a non considerare come l’espressione di un ego incontenibile, di una mania di grandezza di cui l’autore certo soffre, ma che comunque dà alla saga una dimensione forse più grande di quella che si era fin qui guadagnata.

La forza della narrazione sta nei dettagli, nelle sottili differenze fra gli infiniti mondi che ruotano intorno alla Torre. Differenze che talvolta traggono in inganno, ma che fondono magnificamente le innumerevoli finzioni e le innumerevoli realtà. Parlando dei Lupi del Calla, avevo già sottolineato come l’intera produzione di King, alla resa dei conti, convergesse verso la dimensione di Roland e del suo ka. L’ombra dello scorpione, Le notti di Salem, Cuori in Atlantide, Il Talismano, La casa del buio, tutti mondi autonomi eppure tutti collegati. E ora Stephen King in persona, la sua vita o una delle sue infinite varianti. E tutto continua a essere coerente e complicato, senza perdere smalto, vigore, tanto meno forza narrativa.

Manca un ultimo tassello e l’opera omnia del Re del brivido sarà conclusa. Tutto lascia presupporre fuochi d’artificio. E poi King si ritirerà? Sembra incredibile, ma dopo aver letto La canzone di Susannah si capisce che anche questo dilemma dipende dalla Torre. Se così sarà, comunque, ci auguriamo di assistere alla classica iperlunimosità prima dello spegnimento, tipica delle stelle.

Avevamo lasciato i pistoleri sgomenti dopo la vittoria sui Lupi del Calla. Sgomenti perché, sebbene tutto fosse filato liscio, Susannah Dean, moglie di Eddie, aveva varcato la porta introvata per andare a partorire il suo mostro in un altro mondo, nella New York del 1999 per l’esattezza. Non proprio Susannah, ma Mia, il demone-donna figlia di nessuno e madre di uno, che l’ha posseduta e che ne sta sfruttando il corpo. La canzone di Susannah è la storia di una ricerca, di una lotta contro il tempo, di infinite rivelazioni mentre il cerchio intorno alla Torre si sta stringendo e l’arma del Re Rosso per far crollare la Torre sta per venire alla luce.

Sono tantissimi i punti del romanzo da sottolineare. La storia si sdoppia in due sottotrame collegate da un filo sottilissimo: in una dimensione stanno Roland, Eddie e Stephen King, nell’altra Susannah-Mia, Père Callahan, Jake e il bimbolo Oy. Le vicende si alternano e si leggono d’un fiato, offrendo numerosi elementi di grande potenza narrativa. Se da una parte si tratta di piombo, dall’altra è la schizofrenia che guida il gioco.

L’azione si completa con l’introspezione, e l’equilibrio che ne scaturisce è perfetto, tanto che ci si rammarica, per una volta, che il logorroico autore non sia stato all’altezza della sua fama. Solo 490 pagine per tutto questo!

Gran parte dello spazio è riservato proprio a Susannah e alla straordinaria lotta interiore tra lei e Mia, tanto che tutto il resto, Roland compreso, passa in secondo piano. Stephen King dà il meglio di sé (come accade ogni volta che siamo di fronte a uno sdoppiamento della personalità), tanto da dare vita a uno scontro memorabile. Sì perché, se vi ricordate bene, Susannah Dean non era altro che il risultato della fusione di due personalità, quella malvagia di Detta Walker e quella razionale di Odetta Holmes, personalità che ora riconquistano terreno nell’anarchia che si sta affermando in quell’unico corpo, per sconfiggere il nuovo intruso. A tratti sembra di rivivere il groviglio di voci della protagonista del gioco di Gerald, con la differenza che Susannah non è ammanettata a un letto, ma è libera di muoversi. È un gioco di alleanze, di ricatti, di promesse e di predominio senza esclusione di colpi fra le molteplici sfaccettature di una persona sola, mentre le doglie si avvicinano e un altro Vettore si spezza facendo vacillare il destino di miliardi di universi.

Se non sapessimo che il prossimo e ultimo romanzo uscirà tra pochi mesi, saremmo tutti delusi dal finale che lascia tutti così, col fiato sospeso, a renderci conto che le pagine sono finite sul più bello.