Francia, seconda metà dell'XI secolo, al giovane Baliano scosso nella fede e turbato dalla perdita degli affetti familiari viene offerta l'opportunità di rifarsi una vita: il padre naturale, il nobile cavaliere Goffredo di Ibelin, lo invita a unirsi a lui nel suo ritorno in Terra Santa elevandolo al grado di cavaliere ed erede delle sue sostanze.

All'arrivo a Gerusalemme, il Regno dei Cieli, crocevia e crogiolo di razze e religioni il giovane fa sua la missione di cavaliere nel senso più alto e nobile del termine, ma sotto la superficie di una pace conquistata grazie all'intelligenza e alla tolleranza di Re Baldovino IV di Gerusalemme e di Saladino Re dei Saraceni, si agitano le passioni e le brame personali di chi vorrebbe far suo il regno manipolando per i propri scopi l'ideale religioso.

Prima di parlare dei meriti di questo film è forse il caso di fare piazza pulita, nei limiti del possibile, di troppi fraintendimenti e dibattiti oziosi che ne hanno preceduto e seguito la programmazione.

Le critiche malevole cui Le Crociate è stato sottoposto, soprattutto negli Stati Uniti, appaiono più dettate da un maldestro tentativo di apparire politicamente corretti nei confronti dell’opinione pubblica andando troppo al di là del messaggio effettivamente offerto dalla pellicola, che è fondamentalmente di tolleranza universale, privo di facili schieramenti, e che soprattutto condanna – come spiegano con chiarezza le scarne didascalie iniziali – il colonialismo mascherato dietro le ideologie in ogni tempo, che si parli di crociate o del “fardello del bianco” caro a Kipling.

In quest’ottica il titolo italiano è sbagliato, in quanto manca totalmente il riferimento all’originale, Kingdom of Heaven – il Regno dei Cieli - che suona vagamente ironico, ma limitiamoci all’assunto filmico in quanto l’opera di Ridley Scott, pur non essendo un capolavoro, rasenta la perfezione stilistica e ogni elemento è sapientemente dosato.

La ricostruzione storica e iconografica è ottima, a una prima visione non sembrano risultare particolari sbavature né licenze di qualsiasi tipo.

All’inizio si può trovare un vago disagio per la somiglianza del prologo con quello di Il Gladiatore, ma lo si può tranquillamente accettare come una sorta di “marchio di fabbrica" del regista, e forse i dialoghi non rendono giustizia alla sceneggiatura, rasentando soprattutto nel finale il luogo comune, ma sono piccoli nei che non rovinano troppo il piacere dello spettacolo.

Gli interpreti sono all’altezza della situazione, incluso il bistrattato Orlando Bloom (Baliano), forse il più credibile e comunque il più volenteroso, mentre alla gigioneria di Brendan Gleeson (Reginaldo di Chatillon) viene concesso troppo spazio rischiando che trasformi il suo “cattivo” in uno stereotipo troppo di maniera.

Divertenti come al solito gli omaggi al cinema sempre presenti nelle opere di Scott: si va dal Macbeth di Polanski – in questo senso l’inizio del film è quasi fuorviante, si arriva alla citazione della colonna sonora scritta e interpretata dalla Third Ear Band per la trasposizione del capolavoro shakespeariano – ai film sugli assedi “storici” in voga negli anni ’60, passando per un lampante e divertito omaggio alla figura di Antonius Bloch, il protagonista di Il Settimo Sigillo.

I decantati effetti speciali, da alcuni trovati deludenti, sono a mio parere perfettamente funzionali alla storia e vi sono intessuti nel modo giusto, tanto da rimanere alla fine leggermente infastiditi ricordando i proclami entusiastici e i “duelli” ingaggiati alla vigilia con altre recenti produzioni.

Forse a qualcuno i momenti d’azione saranno sembrati troppo distanziati e rarefatti, ma lo spettacolo, pur se le due ore e mezza possono spaventare, non ne risente e mi sembra ingeneroso bollare il film come mortalmente noioso.

Tra i pregi del film c’è anche quello di aver tentato, nobilmente dal mio punto di vista, una rilettura moderna, equilibrata e storicamente corretta di un momento così importante e insieme controverso come l’epopea delle crociate; non siamo di fronte a un capolavoro, d’accordo, ma comunque il film di Ridley Scott sembra un buon inizio, certo meno manicheo di molti western “revisionisti”, improbabili e bislacchi mediante i quali la cultura americana ha cercato di rifarsi tardivamente una coscienza rispetto al genocidio dei nativi.

Un ultimo appunto per Orlando Bloom: il giovanotto ci sembra notevolmente maturato, non soltanto da un punto di vista fisico e ci piacerebbe vederlo ora alle prese con qualcosa di più piccolo, senza l’affanno comportato dai rischi di vedersi intrappolato nel cliché di attore per mega produzioni.