Uberth è un diverso e non sa perché.

La sua diversità è rappresentata dall’immortalità, una caratteristica comunemente ritenuta una fortuna ma che, a ben vedere, suona piuttosto come una condanna. Perché Uberth osserva il mondo scorrere sotto i suoi occhi viaggiando a una velocità diversa, che non consente soste a meno di essere disposti a pagare a prezzo altissimo qualsiasi intimità. Un ramingo del Tempo non può infatti attaccarsi a nulla e a nessuno, perché sa che, dolorosamente, sopravvivrà inevitabilmente a un mondo improntato al transeunte. L’unica chance è quella di trovare qualcuno simile a lui… Uberth impiegherà millenni per sperimentare questo incontro. Ma scoprirà che non può appropriarsi nemmeno di questo. O almeno non ancora. E’ necessario che, prima, Uberth intenda il segreto della propria condizione e solo quando si sarà liberato dalla condanna di un tempo congelato e sempre uguale a se stesso potrà vivere finalmente appieno il resto della propria vita.

 

Come si può intuire, si intrecciano in questa vicenda molteplici e articolate tematiche che, proprio per la vastità e complessità, avrebbero avuto bisogno di molte più pagine per essere raccontate. L’autrice ha conferito invece alla propria storia un'impostazione estremamente concisa e perciò penalizzante. Infatti, se da un lato l’andamento serrato ha il vantaggio di introdurre subito il lettore nel bel mezzo del racconto, tale ritmo non permette un collegamento sempre coerente tra il presente e l’alta concentrazione di flashback (soprattutto nella prima parte) tesi a svelare il passato del protagonista. Si ha così l’impressione che alcuni episodi rimangano staccati dal contesto, perché non hanno il tempo di sviscerarsi e mostrare la loro rilevanza, di svelare l’intrinseco motivo per cui, in una vita immortale, quei tasselli hanno trovato una ragione forte e precisa per imprimersi nella memoria di Uberth.

Nella prima metà del libro il carosello fra passato tende dunque a far ‘girare la testa’ al lettore, mentre nella seconda parte la sensazione si attenua molto, facendo intuire una stesura in tempi differenti: un fattore che l’autrice, qui al suo romanzo d’esordio, ha del resto confermato.

In questa seconda sezione, una minore concentrazione di flash back e uno spostamento d’accento sul presente risulta molto più funzionale al respiro generale dell’opera, anche se va un po' a discapito dell’omogeneità totale. Tuttavia lo sviluppo del sentimento fra il protagonista maschile e quello femminile si rivela anch’esso un po’ brusco: si passa dall'attrazione per il simile al completo innamoramento senza avere il tempo di maturarne il percorso, perché il processo interiore non viene mostrato e vengono dati per scontati alcuni passaggi intermedi, cosicché l’approdo finale giunge quasi a sorpresa.

Il momento introspettivo più azzeccato ci viene regalato dopo lo sbarco all’Antartide e prima della ripresa del viaggio di ritorno. E non è un caso: è uno di quei pochi momenti in cui l’autrice si concede di rallentare il ritmo, dimostrando che, nelle circostanze opportune, è perfettamente in grado di gestire l’analisi psicologica.

Siamo dunque in presenza di una storia che potenzialmente si poteva sgrezzare e lucidare fino ad arrivare ad afferrarne un cuore solido e intenso, mentre il prodotto finito ne fa intravedere solo degli sprazzi, perché il ritmo adottato fa viaggiare il lettore a velocità di curvatura e non gli dà tempo di guardarsi bene attorno.

Nel complesso, Io L’Immortale rappresenta per Angela Catalini un’istruttiva esperienza di rodaggio, con momenti riusciti che si alternano ad altri meno convincenti, ma con un percorso che poggia comunque su una trama e su dialoghi credibili, tracciati con uno stile agile, pulito e dotato di un tocco personale che, se coltivato, sarà foriero di ulteriori futuri traguardi.