Z. Orbi e Maximilian imboccano una via secondaria. Il loro scooter trema ancora più forte. Da queste parti le strade fanno davvero schifo.

  «Magari continuiamo a piedi» propone Maximilian.

  «Ti fidi a lasciarlo qua?» chiede Z. Orbi.

  Maximilian non si fida, non qui, e dopotutto mancano soltanto un centinaio di metri. Se si fa fregare di nuovo lo scooter, papà gli farà un culo così, prima di comprargliene un altro. E lui non vuole restare a piedi per due settimane, o tre: quindi continua. Si ferma solo quando arriva davanti a un muro color grigio cemento. Incornicia un condominio che sembra una prigione. I due scendono dallo scooter, intirizziti, e prendono gli zaini.

  «Yo» dice Z. Orbi. «È figo.»

  Maximilian tira fuori uno spray nero e inizia ad agitarlo. Il tictac della bomboletta rimbomba nel silenzio come un’esplosione. D’istinto Maximilian si blocca, spaventato. Poi riprende, sperando che Z. Orbi non abbia notato il suo momento di debolezza. Per fortuna l’amico era impegnato a sfilarsi le scarpe e riporle nello zaino. Sono Nike nuove, non ha voglia di rovinarle per un graffito.

  «Allora, fra’» ricapitola Maximilian, «scriviamo Ganja Crew Rulez, in rosso su sfondo nero.»

  «Non dimenticare i contorni gialli» dice Z. Orbi, saltellando per il freddo.

  Maximilian si guarda intorno ancora un attimo. È un panorama molto diverso da quello a cui è abituato. Questa non è la Roma di piazza Fiume, fatta di palazzine pulite, studenti universitari e gente che passeggia a qualsiasi ora del giorno e della notte. Questa è la Roma del quartiere di San Basilio, una Roma ventosa e fredda, in cui gli alberi in inverno sono creature smunte di un altro mondo, in cui il silenzio è una forza con cui fare i conti, i palazzi crollano sotto l’umidità e il buio spaventa ancora. Maximilian ha una gran fretta di incominciare l’opera, perché ha una gran fretta di finirla. È un ragazzo della strada, lui, ma in questo momento preferirebbe trovarsi sotto la sua coperta elettrica, con una tazza di cioccolata calda sul comodino. Quindi avvicina il beccuccio della bomboletta al muro, mentre Z. Orbi ne estrae una rossa.

  «Fermi» ordina una voce esile che li fa sussultare. I due guardano chi ha parlato. È un bimbetto che avrà sì e no cinque anni, con la carnagione nerissima e i capelli crespi. Indossa soltanto una salopette da meccanico e un paio di calzini spaiati, uno verde, l’altro con su un Winnie the Pooh orbo da un occhio (al suo posto campeggia un pollicione nero). Maximilian e Z. Orbi non l’hanno sentito arrivare. Strano, visto che sono dei duri sempre all’erta.

  «E tu da dove sbuchi?» chiede Z. Orbi. È meno sicuro di quel che vorrebbe far credere. Non che un negro tanto piccolo lo preoccupi, ma, be’, meglio andarci prudenti, fra’.

  «Non userete le vostre vernici stanotte» dice il bambino, ignorando la domanda. Ha un accento straniero che a Z. Orbi non piace affatto.

  «Fila, dai» gli fa. «Che è meglio» aggiunge, tutto contento del tono minaccioso che gli è venuto.

  «Sei troppo piccolo per andartene in giro da solo» si unisce Maximilian.

  «Non è solo» dice un altro bambino. Viene fuori dalle ombre di un lampione rotto, come se esse stesse l’avessero generato. Indossa un pigiamino blu tutto strappato ed è lercio come un ratto, ma almeno sembra italiano.

  «Mica siamo soli, noi» continua un terzo, dai capelli chiarissimi, talmente piccolo e minuto che quasi non sta in piedi da solo. Sul naso porta due occhiali grossi come tazze da te, con la montatura tenuta insieme da scotch marrone. Brandisce una spada di latta: tenta di farla sembrare pericolosa, con tutta la serietà di un bambino che gioca.

  «Dai, fratello» ridacchia Z. Orbi, «abbassa quel…»

  «…ferro» lo aiuta Maximilian, che ricorda sempre il gergo giusto.

  «Ferro, yo. Siamo ragazzi della strada come voi. Non sapevamo che c’era un’altra crew.»

  «Intendiamo farvi male» dice il primo bambino.

  «A me non mi minaccia nessuno» si vanta Z. Orbi, avanzando.

  «A nessuno è mai importato.»

  Z. Orbi preme l’indice sulla bomboletta. Ne esce sibilando una sottile scia di vernice rossa, che va a posarsi sul petto del bambino. Maximilian, con un certo sforzo, scoppia a ridere.

  «Cattivi!» dice una voce nuova. Un altro bambino è sbucato dal nulla. Ma dove diavolo si nascondono? pensa Maximilian.

  Un altro bambino arriva, accompagnato da uno che sembra la sua fotocopia. E un altro ancora, grassoccio, trotterella verso il gruppo. Sono sei, e diventano sette e poi otto, e nove. Si stringono a semicerchio attorno ai due ragazzi. Adesso Z. Orbi e Maximilian, ovvero Giulio e Luca, figli rispettivamente di un architetto e di uno dei più grossi commercialisti di Roma, hanno paura. È troppo poca. Problema, questo, che verrà presto risolto.

  Dopo, quando Giulio è morto e scuoiato, la schiena di Luca è stata spezzata e un orecchio gli è stato strappato via, una figura aggraziata gli si avvicina. Il ragazzo non riesce a distinguerne il viso perché ha gli occhi appannati, ma vede che è un po’ più alta dei bambini. Non indossa scarpe. La figura si abbassa sulla strada, fino a portargli le labbra all’orecchio superstite. Emana un odore di menta, acqua di mare e altro. «Dì loro che sta tornando» sussurra. Nient’altro. Poi si allontana, seguita dai bambini. Luca resta solo, immobile accanto al cadavere di Giulio, e pensa confusamente che queste cose succedono agli altri, non a lui, non a quelli come lui. La carne e le ossa gli urlano che così era un tempo, oggi non più.