Tornare sui propri passi è sempre un rischio. Lo apprende a suo spese Alex, ingegnere cibernetico che torna dopo 10 anni all'Università che lo ha visto studente e brillante ricercatore.

Lì ritrova il fratello David, che ora sta insieme a Lana, ex fiamma di Alex.

I due hanno una figlia, Eva, con la quale nasce un'amicizia per motivi di studio. La piccola infatti sembra possedere tutte le caratteristiche caratteriali per fare da modello al progetto che Alex è stato chiamato a riprendere dopo tanto tempo: creare una intelligenza robotica "libere" basandosi su un bambino, il modello SI-9.

Sì perché siamo in un probabile futuro, non molto distante dalla nostra epoca, dove l'industria cibernetica ha creato efficaci robot servitori, molto simili agli esseri umani all'apparenza, ma mai effettivamente liberi, ma anche a uso e consumo degli esseri umani, animali artificiali come Gris, il gatto di Alex, che però è anch'egli "libero", ossia senza un programma ben determinato.

In ogni caso quando se qualcosa andasse storto con la programmazione, cioè se un robot dovesse rendersi pericoloso per se e per gli altri, basterebbe pronunciare una frase che sembra quasi magica "Che cosa vedi quando chiudi gli occhi?", e la matrice del cervello robotico si distruggerebbe all'instante.

La vicenda scorre sui piani paralleli dei tentativi di Alex di creare questo nuovo modello di robot e sull'approfondimento dell'amicizia con la bambina, dei residui del rapporto con la ex ragazza e dei conflitti sopiti con il fratello.

I due piani, quello peculiarmente fantascientifici si intrecciano quindi, con un ritmo pacato che porta alle importanti rivelazioni finali e all'esplosione parossistica di situazioni tragiche.

Ampolle alchemiche o sofisticati costrutti software?
Ampolle alchemiche o sofisticati costrutti software?
Se non mi avessero detto niente, avrei detto subito che il film era spagnolo sin dall'incipit, in media res, che mi ha ricordato Il Labirinto del Fauno mutatis mutandis. In effetti Kike Maíllo, è un giovane allievo di Guillermo Del Toro, per cui i conti tornano.

Con il cinema di Del Toro ha in comune la semplicità, ma anche l'efficacia visiva, che passa per una ambientazione anch'essa semplice ma molto credibile, un futuro dal vago sapore retrò, con auto elettriche che hanno le sembianze di Saab e Volvo anni '70, ma hanno head up display che informano i guidatori, o con l'interfaccia dei programmi molto simile a quella di Minority Report, ma che mostra ampolle e sfere che sembrano di uso alchemico più che informatico.

Già Alan Turing il matematico inglese, che fu tra i più importanti tra i padri della moderna informatica, nonché uno dei primi teorici dell'intelligenza artificiale, parlò della creazione di "macchine che apprendono", arrivando a chiedersi: "Invece di elaborare un programma per la simulazione di una mente adulta, perché non proviamo piuttosto a realizzarne uno che simuli quella di un bambino?". (1)

Non cita però Turing il soggetto di Kike Maillo e Martì Roca, sceneggiato dal drammaturgo catalano Sergi Bebel e da Aintza Serra perché ai concetti di ricostruzione della meccanica del corpo robotico, la storia concepisce il lavoro di creazione dell'intelligenza artificiale non come algoritmico, posto in termini di computazione, bensì come quello di una costruzione caratteriale.

In effetti il lavoro di Alex più che ingegneristico è psicologico. Tramite il "display ad ampolle" chiamato Hand-Up, maneggia sfere che rappresentano possibili caratteristiche caratteriali del cervello del robot, recuperando i precetti della "frenologia" una pseudoscienza (come l'alchimia del resto) per la quale ogni parte del cervello umano sarebbe collegata a un tratto del carattere.

Ne consegue una esplorazione dei sentimenti dei robot, che possono per esempio avere dei livelli di emotività programmabili, e su come gli esseri umani interagiscono empaticamente con la loro "simulazione" dei sentimenti.

Alex, Eva e SI-9
Alex, Eva e SI-9
Emblematici a tal proposito sono i dialoghi tra Alex, l'ottimo Daniel Brühl (Bastardi senza gloria) e il robot servitore Max, uno strepitoso Lluìs Homar (La Mala Educaciòn), sia i momenti di interazione con il più esplicitamente robotico, il grezzo prototipo SI-9, che sembrano ricordare gli scambi di battute (e non solo attenzione!) tra Pinocchio e Geppetto.

Convenzionale l'interazione con il fratello David, basata sui classici stilemi della gelosia per il fratello più bello e intelligente, sul sospetto che il rapporto con Lana possa ravvivarsi, Alberto Ammann (Cella 211) compie il suo dovere con professionalità.

Più strutturate le due figure femminili, Lana e la figlia Eva, che se all'inizio sembrano presentate in modo schematico, crescono man mano che la storia le pone sotto i riflettori. Brave sia Marta Etura (Bed Time) nell'impersonare con Lana una scienziata capace quanto e più di Alex, che ha dovuto accettare dei compromessi per prendersi cura della figlia, che la piccola Claudia Vega, che è ben diretta, a riprova che la “scuderia Del Toro” sa lavorare molto bene con i ragazzi.

Che il lavoro di casting sia stato efficace lo conferma anche l'ottima prestazione di Anne Canovas, che è la carismatica scienziata Julia.

Il film ha il merito di avere tante idee, con il difetto di qualche lentezza e un eccesso di melodramma sul finale. È tutto sommato già vista la “morale” per la quale giocare a fare “i creatori” può essere fonte di pericoli mortali. Complessivamente però non è pregiudicato il buon esito dell'opera. La cinematografia spagnola si conferma capace di produrre con il minimo indispensabile più che dignitosi film fantastici che, pur attingendo a una vasta serie di precedenti illustri (in questo caso ovviamente Pinocchio e A.I. senza dubbio, ma un punto di merito è non aver usato, o abusato, delle tre leggi asimoviane), sanno rimescolarli in una storia scritta e concepita per il cinema, e che non è la trasposizione di qualcos'altro, un sequel, o un esplicito remake, e che ha qualche spunto di originalità.

(1) Alan Turing, "Macchine che apprendono" in La filosofia degli Automi, a cura di V. Somenzi, R. Cordeschi, Torino 1986, ed. Bollati Boringhieri