Fui costretta a girare due volte intorno alla piazza, prima di riuscire a imboccare la corsia giusta per dirigermi a est verso il motel. Ebbi la sensazione che tutte le strade di Sarne confluissero in quella piazza, dove i negozi erano l’attrazione turistica principale  del paese, tutti rimessi a nuovo per ben figurare.

Perfino i lampioni erano pittoreschi: linee curve di metallo, verniciate di un verde smorto e decorate con ghirigori e foglie. I marciapiedi erano lisci e dotati di rampe per i disabili, e c’erano numerosi cestini dei rifiuti fatti a forma di casette.

Tutti i negozi sulla piazza erano stati risistemati per apparire intonati al resto e avevano una finta facciata in legno con insegne vecchio stile e scritte del tipo: “Gelateria di zia Hattie”, “Accomodati da Jeb”, “Emporio Jn”, “Ozark Annie Dolciumi”.

Davanti a ognuno di quei negozi era stata sistemata una massiccia panchina di legno per far riposare i passanti. Attraverso le vetrine luccicanti scorsi un paio dei negozianti che indossavano abbigliamento di fine Ottocento. 

Erano già le cinque passate quando riuscimmo a muoverci da lì. Era fine ottobre e dopo una giornata coperta dalle nuvole, il cielo si  era fatto buio.

Una volta lasciata la piazza, Sarne era un posto orribile. Anche i negozi abbandonavano le insegne turistiche per lasciar posto a quelle più ordinarie come la First National Bank e Casalinghi Reynolds.

Più mi allontanavo dal centro, lungo una di quelle strade laterali, più frequentemente notavo dei negozi abbandonati, un paio perfino con le vetrine infrante. Il traffico era del tutto inesistente. Eravamo nella parte del paese dove abitavano i locali. Il sindaco mi aveva detto che la stagione turistica si sarebbe conclusa al cadere delle foglie. Sarne stava per arrotolare i tappeti rossi per i mesi invernali e riporre la propria ospitalità.

Ero seccata di aver sprecato tempo e chilometri, ma non avevo ancora completamente perso la speranza, e non appena mi accorsi dell’inequivocabile sensazione di trascinamento, a un incrocio cinque isolati a est dalla piazza, ne fui quasi felice. Arrivò dalla mia sinistra, a circa sei metri di distanza.

– Fresco? – mi chiese Tolliver, vedendomi sussultare. Ho sempre lo sguardo fisso su un punto, anche se non è possibile che veda fisicamente la cosa con i miei occhi.

– Molto. – Non eravamo passati accanto a un cimitero e non percepivo la sensazione di un cadavere imbalsamato di fresco, che indicava la presenza di un’agenzia di pompe funebri. L’impressione era troppo fresca, il senso di trascinamento troppo intenso.

Vogliono essere trovati, sapete.

Invece di proseguire diritti, in direzione del motel, svoltai a sinistra per seguire quell’aroma mentale. Mi fermai nel parcheggio di un piccolo distributore di benzina e lì  ebbi nuovamente un sussulto, mentre ascoltavo la voce che mi chiamava dal terreno incolto sull’altro lato della strada. Parlo di “aroma”  e “voce”, ma ciò che mi attira non è così ben definibile come le parole scelte per indicarlo.

Di fronte c’era la facciata di un palazzo. Da quanto riuscivo a leggere dall’insegna sciupata e tentennante, un tempo ospitava una lavanderia. A giudicare dalle condizioni dell’edificio, il locale era rimasto semidistrutto da un incendio molto tempo prima.

– Laggiù, in mezzo alle rovine – dissi a Tolliver.

– Vuoi che controlli?

– Nah, telefonerò a Branscom quando arriveremo al motel.

Ci scambiammo un sorrisetto. Niente di meglio di un esempio concreto per supportare con i fatti le mie facoltà.  Tolliver mi rivolse un segno di assenso con il capo.

Ritornai sulla strada che portava al motel e una volta giunti entrammo nelle rispettive camere senza ulteriori interruzioni.

Avevamo bisogno di rimanere un po’  da soli, dopo aver trascorso insieme l’intera giornata. Per quello prendevamo camere separate, non certo per eccessiva ritrosia e riservatezza. 

La camera era identica a tutte le altre nelle quali avevo dormito nel corso degli anni. Copriletto verde, imbottito e liscio, e dipinto sopra il letto raffigurante un ponte di qualche contrada europea.

A parte minimi segnali distintivi, avrei potuto trovarmi in una qualsiasi camera di uno scadente motel, da qualsiasi parte in America. Almeno odorava di pulito. Tirai fuori il beauty case e lo posai nel piccolo bagno, poi mi misi a sedere sul letto e mi chinai a leggere le istruzioni per chiamare con il vecchio apparecchio telefonico. Dopo aver trovato il numero sul piccolo elenco telefonico locale, contattai il distretto di polizia e chiesi dello sceriffo. Dopo meno di un minuto mi arrivò la voce di Branscom, che palesò immediatamente la seccatura di dovermi parlare una seconda volta. Iniziò di nuovo con la storia del malinteso riguardo alle mie capacità (come se io c’entrassi qualcosa), ma lo interruppi.