– Pensavo le interessasse sapere che il cadavere di un uomo di nome Chess, Chester, o qualcosa del genere, si trova nella lavanderia bruciata in Florida Street, a circa cinque isolati dalla piazza.

– Cosa? – Seguì un lungo momento di silenzio, mentre Harvey Branscom metteva a fuoco la notizia. – Darryl Chesswood? Vive a casa di sua figlia. Hanno aggiunto una stanza lo scorso anno, quando lui ha iniziato a dimenticarsi dove abitava. Con quale diritto afferma una cosa del genere?

Sembrava veramente risentito.

– È il mio mestiere – risposi e riagganciai con calma il ricevitore.

Avevo appena offerto un assaggio gratuito alla città di Sarne.

Mi distesi sullo scivoloso copriletto verde e incrociai le mani sul petto. Non c’era bisogno di avere poteri medianici per prevedere cosa sarebbe accaduto. Lo sceriffo avrebbe chiamato la figlia di Chesswood, che sarebbe andata a controllare il padre per scoprirne la scomparsa. A quel punto, probabilmente lo sceriffo si sarebbe recato di persona sul posto, visto l’imbarazzo di dover mandare un agente a svolgere un tale incarico. E avrebbe così trovato il corpo di Darryl Chesswood.

Il vecchio era morto per cause naturali: emorragia cerebrale, pensavo. Trovare qualcuno che non fosse stato assassinato era sempre un’esperienza rinfrescante. 

Il mattino seguente, quando Tolliver e io entrammo nella caffetteria accortamente collocata accanto al motel, l’intero gruppo era già là, comodamente sistemato in un piccolo séparé. Le porte erano spalancate, in modo che i presenti non potessero non accorgersi del nostro ingresso. I piatti sporchi sul tavolo, le due sedie vuote e la caraffa con il caffè indicavano che ci stavano aspettando già da un po’. Tolliver mi dette un colpetto di gomito e i nostri sguardi si incrociarono.

Fui felice di essermi già truccata. Di solito non lo faccio mai prima di aver bevuto il caffè.

Mettersi a un altro tavolo sarebbe stato troppo provocatorio, quindi feci strada verso la porta aperta della sala incontri, con il giornale preso dal distributore automatico infilato sotto il braccio. La stanzetta era quasi completamente occupata da un grosso tavolo rotondo. Tutta la gente che contava qualcosa a Sarne gli era seduta attorno e ci fissava. Provai a rammentare se mi fossi pettinata quella mattina, ma poi mi dissi che Tolliver mi avrebbe avvisata se avessi avuto veramente l’aspetto di una appena alzata dal letto. Porto sempre i capelli corti, perché sono ricci, e se li lasciassi crescere, mi troverei alle prese con un cespuglio corvino. Tolliver è fortunato: i suoi sono lisci e li lascia crescere finché riesce a legarseli con un codino. Poi, quando si stanca, li taglia di netto. Al momento li aveva corti.

– Sceriffo – dissi con un cenno di saluto. – Signor Edwards, Signora Teague, Signor Vale. Come state questa mattina? – Tolliver scostò la sedia per me e mi accomodai. Si trattava di un gesto di cortesia volutamente scenico. Lui è convinto che più riguardo mi dimostra in pubblico, tanto più quello stesso pubblico sentirà che lo meriti. Qualche volta funziona.

La cameriera mi aveva riempito la tazza e avevo già preso un sorso prima che lo sceriffo iniziasse a parlare. Distolsi lo sguardo dal giornale, ancora piegato accanto al piatto. Amo particolarmente leggere il giornale mentre bevo il caffè.

– Era là – asserì con tono grave Harvey Branscom. Il viso sembrava invecchiato di dieci anni rispetto alla sera prima, e le guance erano coperte di lanugine bianca.

– Intende il signor Chesswood, vero? – Ordinai della frutta e dello yogurt alla cameriera, la quale sembrò ritenerlo un abbinamento curioso.

 Tolliver prese pane tostato con uova e pancetta e le rivolse un’occhiata civettuola. È la dannazione delle cameriere.

– Già – confermò lui. – Il signor Chesswood. Darryl Chesswood. Era un buon amico di mio padre.

Pronunciò la frase con notevole enfasi, come se il fatto di avergli comunicato dove trovare il cadavere del vecchio mi dovesse far sentire in colpa per la sua morte.

– Mi dispiace per la sua perdita – si intromise Tolliver con tono formale ed educato. Io partecipai al lutto con un breve movimento della testa, poi lasciai cadere il silenzio. Con un gesto, Tolliver si offrì di riempirmi la tazza, ma alzai la mano per indicargli che per quel giorno bastava così. Finii quello che rimaneva, poi a mia volta feci il cenno di dare altro caffè a Tolliver, ma anche lui rifiutò.

Sentendomi sotto gli sguardi furtivi di tutti quegli occhi, non fui capace di aprire il giornale che avevo spiegato davanti a me. Non mi restava che aspettare che quel manipolo di montanari fosse pronto a dirmi ciò su cui si era sicuramente già trovato d’accordo. Mi ero lasciata prendere dall’ottimismo quando li avevo visti in nostra attesa, ma ora quella sensazione stava rapidamente svanendo.