Il finale è fiacco.

Jo March

Sembrerebbe che questo sia il capitolo finale di una saga iniziata nel lontano 1995 (in Italia arrivò “solo” nel 2003). Sono passati 22 anni, quindi, da quando i lettori conobbero Fitz Chevalier Lungavista e Il Matto.

Insieme a loro abbiamo conosciuto Burrich, Umbra, Molly, Kettricken e tutto il casato dei Lungavista. Soprattutto, abbiamo conosciuto Occhi di Notte. Poi sono arrivati Urtica, Rompicapo, Devoto, e sarebbe inutile ricordarli tutti a chi, come me, ha seguito per oltre 10 anni le loro avventure.

Last but not least, è arrivato un nuovo gruppo di personaggi, capitanati da Ape, con cui, forse, Robin Hobb ha deciso di congedarsi dal mondo dei Lungavista.

Continuo a usare il condizionale e tanti forse perché la signora del fantasy internazionale, la più degna erede di Ursula K. Le Guin, ha saputo tenerci sul filo del rasoio e quando, a volte, sembrava che il tutto fosse concluso, ecco che ci ha stupiti con effetti non speciali, ma sorprendenti.

Ci tengo a sottolineare la validità del prodotto editoriale pubblicato da Sperling & Kupfer.

Ottima la traduzione di M. C. Scotto di Santillo, perfetto il registro, la scelta lessicale mai banale, la capacità di rendere il cambio di identità dei personaggi. Nei primi due volumi non ho trovato una virgola fuori posto, in quest'ultimo qualche piccolo insignificante refuso che, data la velocità con cui è stato tradotto e pubblicato (credo che sia la prima volta da quando la Hobb è arrivata in Italia) è assolutamente perdonabile. La copertina è ripresa dalla pubblicazione originale (versione economica), edita da Random USA. Peccato non averla completamente identica, perché maggior ricca di dettagli.

Chapeau a Sperling & Kupfer, che auspico possa, se legalmente possibile, riprendere tutte le pubblicazioni della Hobb e pubblicarla con lo stesso riguardo usato per questa trilogia. 

Veniamo a L'Assassino – L’ultima caccia.

Fitz e il Matto sono alla disperata ricerca di Ape, finita nelle grinfie di Dwalia e Vindeliar, perché essendo secondo loro il Figlio Inaspettato, a ogni costo deve essere portata a Clerres e sottoposta al giudizio dei Quattro, i temibili detentori delle sorti di tutti gli uomini, i maestri di tutti i Bianchi. L’ormai sessantenne nipote di Veritas e Sagace è stato riabilitato socialmente, non è più “il bastardo”, ma è il figlio illegittimo a cui vengono riconosciuti i meriti e i giusti onori per aver difeso il proprio casato e non solo. Tanti sono i suoi debitori. E c’è il Matto, che è stato ritrovato quasi per sbaglio. Fitz gli ha promesso che a Clerres, chi lo ha massacrato al punto di renderlo cieco e zoppo e che, sicuramente, è il mandatario del rapimento di Ape, la pagherà cara. Già dal secondo libro abbiamo capito che il Matto su di loro non aveva tutti i torti, e Ape lo sta imparando a proprie spese: mentre tenta disperatamente di sfuggire a Dwalia, capisce che veramente, in qualche modo, dovrà lasciar compiere il proprio destino, e capirà tutti i risvolti del “deviare dal Sentiero”, nel bene e nel male.

Di più non è il caso di anticipare, neanche se il libro è uscito già da un po’. Chi scrive ritiene che chiunque si approcci alla lettura di una storia complessa e tanto ampia come quella narrata da Robin Hobb abbia il diritto di farlo senza troppe rivelazioni sulla trama.

La conclusione della trilogia si dipana per oltre 800 pagine. Qui la Hobb riversa tutti i sentimenti e i pensieri di Fitz, di chi lo ama e di chi lo teme, un fiume in piena più distruttivo della forza dei Draghi secondo, forse, solo alla crescita della consapevolezza interiore di Ape. Ah, i draghi, gli altri grandi protagonisti di questa saga. Qui la narrazione delle loro storie raggiunge dei picchi letterari che difficilmente avrete trovato altrove. Ricordano gli dei greci. Adorati e temuti, capricciosi ed egoisti. Peggio ancora, indifferenti all’umano sentire, raramente scendono a compromessi. Chiaramente chi ha letto le Cronache delle giungle della pioggia aveva già scoperto il loro mondo e alcuni fatti che qui vengono ripresi, seppur brevemente. Ma se non l’avevate già conosciuta, amerete Heeby, e Tintaglia vi urterà e vi affascinerà contemporaneamente.

La storia è densa di fili che la Hobb ha intessuto con metodo e… Arte. La sua grande meritoria abilità è che, alla fine della storia, se ne vede il quadro completo, le plausibili conclusioni, gli importanti epiloghi e anche i fili non tirati, chissà quanto volutamente? Proprio per questo la sensazione è che la storia possa continuare, laddove lei volesse. Il suo genio creativo, forse, sta proprio in questo.

Lo stile è il medesimo di tutte le sue opere. Lunghe sequenze di racconti introspettivi dei personaggi narranti (stavolta, oltre a Fitz, è proprio Ape a narrare), le loro paure, le loro riflessioni, la capacità di comunicare ogni emozione al lettore. Il fascino dei mondi da lei immaginati e strutturati che si armonizza magistralmente con l’avvicendarsi delle situazioni e degli eventi, la descrizione dei luoghi, il carattere e lo spirito di ciascun personaggio viene espresso anche grazie a una chiara e controllata traduzione, soprattutto per rendere quei personaggi dalla doppia e tripla vita. Difficoltà ottimamente superata, come non era invece stato fatto con la Trilogia del Figlio Soldato (ma questa, per l’appunto, è un’altra storia, anche editoriale).

A volte, però, il dubbio che certe risoluzioni avvengano troppo rapidamente rispetto al resto della narrazione. Certo, un po’ come nella vita: tanto tempo a rimuginare, tanto tempo a preparare, a dirigersi verso una direzione, a cercare di rendere tutto perfetto, a uscire rapidamente da un imprevisto. E poi le risoluzioni, felici o drammatiche che siano, avvengono in un attimo.

Ma se nei primi due libri il ritmo incalzante permette di perdonare questi “momenti rapidi”, nel terzo libro non mi sento di essere parimenti indulgente, e devo ammettere che questa è una pecca di tutti i libri della Hobb. Stavolta mi aspettavo qualcosa in più. Non mi interessano i fuochi d’artificio, ma a un certo punto è talmente chiaro come andrà a finire che ci si resta un po’ male. Per parafrasare proprio la Hobb, avrebbe lei stessa potuto deviare un certo Sentiero.