Sammy Fabelman ha solo sei anni e i suoi genitori decidono di portarlo per la prima volta al cinema. Lui teme però quel mondo di luci e di giganti, nonostante la madre lo rassicuri che i film sono sogni meravigliosi e il padre gli spieghi la tecnica delle immagini in movimento. Una volta entrato in sala Sammy rimane folgorato dall’immagine di un treno che fa deragliare un auto e, tornato a casa, cerca di replicare quel momento con i suoi trenini telecomandati. È l’inizio di una passione che lo accompagna nell’adolescenza quando recluta compagni di scout e le sorelline per girare un suo western nel deserto dell’Arizona. Ma le cose cambiano rapidamente nella sua vita: il padre, un brillante ingegnere vuole trasferirsi a Los Angeles, mentre la madre che ha rinunciato alla carriera di pianista per la famiglia, preferisce rimanere a Phoenix. Il fare cinema per Sammy diventa vitale ma scopre anche che il potere della macchina da presa non è affatto innocuo.

Come per tutti i grandi autori, anche nei propri film Steven Spielberg mette sempre un pezzo di se stesso. L’infanzia che trascina con se il sogno dell’incontro con gli alieni, l’avventura dei western, la ricerca di tesori, i mostri assassini sono parte integrante del suo cinema. Con The Fabelmans scrive invece una lettera d'amore ai genitori, soprattutto a sua madre a cui il film è dedicato, e racconta la propria infanzia lasciando però da parte qualunque elemento fantastico o spettacolare. Già la prima scena in cui il piccolo protagonista capisce che cos’è il cinema, è una dichiarazione d’intenti sul potere fantasmagorico delle immagini in movimento e su quale effetto abbiano avuto nella sua vita. Eppure Spielberg non si limita a fare una dichiarazione d’amore. Il cinema non è per lui uno strumento neutro di registrazione che l’autore plasma con la propria arte, ma ha il potere di scavalcare la volontà di chi sta dietro la macchina da presa.

Tale “forza” è così pervasiva che chi lo maneggia ne deve avere piena coscienza, sacrificando qualcosa che non è richiesto alle persone comuni. Come per ogni artista dichiara nel film lo zio a Sammy, le vicissitudini della vita diventano un po’ meno importanti rispetto ai drammi vissuti dagli altri, perché si è sempre concentrati sul proprio bisogno di creare. Ma la magia sta solo negli occhi di un bambino che vede per la prima volta Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille e che poi vuole fare la stessa cosa con i propri trenini. Quello del cinema, ci dice Spielberg, non è affatto un potere salvifico, ma può avere la forza di far vergognare il razzista bullo della scuola e fargli chiedere scusa al mingherlino ebreo. È incontrare il proprio mito John Ford (interpretato non a caso da David Lynch) e avere da lui consigli su come riprendere in modo interessante il mondo. Nel cinema basta alzare o abbassare l’orizzonte per fare una buona ripresa, nella vita no.