Riceviamo la soffiata di notte. Gli agenti della Fondazione Immaginaria sono a Lucca. Dovremo prestare la massima attenzione nell’avvicinarci a loro: sono agenti segreti (alla Men in Black, per intenderci) e sono qui, in mezzo a noi, per convincerci che la Fondazione non esiste. Sono stati astuti. Si sono presentati come autori di un romanzo (edito per Mondadori). Non lasciatevi ingannare, è un vecchio trucco per deviare la vostra attenzione: è solo un libro, parla di qualcosa che non esiste. È immaginazione, non fa altro che attingere a un immaginario comune. A chi dobbiamo credere, a questo punto? A chi ci dice che è solo un libro, o al libro stesso? Per trovare prove che compromettano finalmente la Fondazione, dobbiamo stanare gli autori e parlare con loro.

IF - La Fondazione Immaginaria
IF - La Fondazione Immaginaria

La soffiata è affidabile: troviamo Fabio Guaglione e Maurizio Temporin all’Auditorium San Girolamo. Sono in compagnia di Fabrizio Furchi, di Radio Impronta Digitale, e di Adriano Barone, autore per Mondadori di Ride, thriller ambientato nello stesso mondo del film omonimo, sceneggiato dallo stesso Guaglione. I quattro stanno discutendo della differenza tra crossmedialità e transmedialità: potrebbe essere l’introduzione a una spiegazione info-dump a cui i due agenti dell’Immaginario stanno cercando di spingerci? Ascoltiamo con attenzione, per verificare se i due agenti si tradiscono: una narrazione crossmediale racconta la stessa storia attraverso media diversi (un fumetto e un film, per esempio), mentre una narrazione transmediale racconta storie diverse, in cui uno stesso universo viene esplorato con diverse storie, ciascuna adatta a un particolare medium narrativo. Nel caso di Ride, lo schermo è adatto al racconto adrenalinico di un reality show in cui un gruppo di ciclisti è costretto a riprendere ogni istante di una gara, pena la morte; il romanzo, al contrario, è più adatto a rappresentare l’escalation di paranoia che deriva dalla sensazione di essere sempre osservato, in maniera ossessiva. Una storia di forte introspezione psicologica è perfetta per un libro. Una gara ripresa in GO-Pro deve rimanere su uno schermo.

Stiamo ancora riflettendo sulle implicazioni di questa differenza, quando Fabrizio Furchi interviene con una domanda a Maurizio Temporin che desta la nostra attenzione. In che modo gli autori gestiscono il processo creativo? La risposta potrebbe aiutarci a capire in che modo la Fondazione Immaginaria agisce nel mettere in moto o nel fermare l’azione del nostro immaginario: ma l’agente sotto copertura si tradirà? Temporin spiega in termini molto vividi la difficoltà della creazione di un mondo immaginario: una battaglia nel cranio dell’autore, combattuta tra la parte intuitiva e la parte logica della propria mente. Una coppia di fatto, che difficilmente le persone vogliono riconoscere. Temporin ci invita  a chiederci quanto ci autorizziamo a dare ascolto nella nostra mente, quanto ammansiamo la nostra immaginazione. Potrebbe essere un test: forse stanno cercando di stanare qualche potenziale target della loro agenzia. Sembra di avvertire un sussurro, tra il pubblico: qualcosa come bambini Imago. Sentiamo una porta che si apre, dei passi che corrono di fretta, ma la nostra attenzione è catalizzata dal palco, dove Temporin ci sta ancora affascinando con cenni a David Lynch e alle idee abissali che si nascondono nel nostro subconscio.

E poi, l’affondo decisivo: l’immaginazione è un super-potere. Ma un super-potere che abbiamo tutti. Certo, forse questo lo rende un po’ meno super. Ma, e qui sta l’assunto della Fondazione, tutto ciò che immaginiamo ha la possibilità di realizzarsi. Non solo, ma esiste un’equazione che descrive il processo creativo: ed eccola, la rivelazione. L’immaginazione è una scienza e la Fondazione, che evidentemente la studia da molto tempo, deve aver trovato il modo di controllarla. Non è a questo che servono le scienze, a conoscere un particolare aspetto della natura per poterlo controllare?

Fabio Guaglione lo ammette: la Fondazione vigila su tutto ciò che dal mondo immaginario arriva nella nostra realtà. Non si tratta di un nemico, ma di un alleato potente, che impedisce che nella nostra realtà entri qualcosa di pericoloso. E qui Guaglione si tradisce: il libro, osserva, è il medium più pericoloso di tutti, perché il lettore diventa regista e attore della storia. Sì, l’agente della Fondazione si è rivelato, in queste parole, perché nella cinque giorni di Lucca le stesse parole hanno risuonato in diverse occasioni.

Il primo a parlarne era stato nientemeno che Francesco Pannofino, storico attore/doppiatore, che aveva parlato proprio della possibilità, per un attore, di essere regista di se stesso nella lettura di un audiolibro (Pannofino ha presentato, a Lucca, il suo più recente lavoro per Audible Italia, Animali Fantastici e dove Trovarli). Parole molto simili a quelle pronunciate da Alessandro Parise, attore/doppiatore, nonché voce del mitico Dune di Frank P. Herbert, secondo cui, in un audiolibro, l’attore/lettore è il regista di se stesso. E secondo lo stesso Marco Azzani, Country Manager di Audible Italia, il libro ha una posizione particolare, nella narrazione di storie, perché richiede il coinvolgimento diretto dello spettatore. La somiglianza delle posizioni lo rende evidente: i due agenti della Fondazione Immaginaria, Guaglione e Temporin, devono aver diffuso le loro teorie negli ultimi giorni. Quale luogo migliore del Lucca Comics and Games per verificare e controllare l’immaginario?

Il discorso dei due agenti è molto coinvolgente: parlano di videogiochi, del modo in cui ogni medium di comunicazione è in grado di valorizzare una storia, dei ritmi e delle funzioni che i diversi mezzi utilizzano. Attraverso questi studi, la Fondazione può arrivare a qualunque fascia di pubblico, a qualunque approccio alle storie. Si tratta solo di una risposta a un’esigenza del nostro tempo, quella di farci immergere nelle storie: e, potremmo aggiungere, lo vediamo ovunque (dalle pubblicità in tv, ormai narrativizzate dai brand, ai documentari, infarciti di storytelling). Il libro non è solo un insieme di pagine scritte, ma un mattone su cui si può costruire qualcosa: ed è proprio su questo qualcosa che la Fondazione deve vigilare. Chi crea un immaginario, infatti, deve avere anche la responsabilità di gestirne le conseguenze. Ma chi ci bombarda di immagini, che infarciscono il nostro immaginario, è consapevole di dover gestire questa responsabilità?

Mentre stiamo riflettendo sulla portata (etica e culturale) di questa osservazione, i due agenti approfittano della confusione per fuggire. Ma il nostro contatto (di cui non possiamo, per ovvi motivi di sicurezza, rivelare l’identità) ci dà una dritta. Recuperiamo Guaglione e, dopo un breve inseguimento, anche Temporin, che si era mischiato alla folla per non farsi smascherare. Abbiamo il dovere, anche morale, di capire se i due sono solo scrittori che si sono imbattuti in una bella storia o veri agenti di un’istituzione paragovernativa che controlla la nostra cultura. Dobbiamo scavare sotto la superficie per chiarire il dubbio e quindi portiamo i due autori nel sottoscala dell’auditorium. Siamo consapevoli del pericolo (un incantesimo Oblivion o uno sparaflasho di Men in Black metterebbero fine a questa indagine prima ancora di riuscire a dire Quidditch), ma il dovere di cronaca ce lo impone. Affondiamo, quindi, con la prima domanda diretta: quanto è rischioso, per la nostra società, il bombardamento di immagini visive a cui siamo sottoposti? Guaglione prende la parola per primo e concorda con il nostro timore: stimolare l’immaginazione è un modo per indurre al pensiero autonomo. Il libro è un oggetto potente, in questo senso, perché chiama il lettore in prima persona a farsi trasportare in altri ambiti, in altri mondi. Temporin richiama ancora alla nostra mente l’immagine di David Lynch (immagine un po’ inquietante, nel sottoscala di un auditorium): il libro è un’esperienza meditativa, interiore, che può condurre a una psicanalisi autonoma del lettore.

La prima domanda non conferma né confuta la nostra teoria. Spostiamo quindi la nostra attenzione su una delle frasi pronunciate nell’auditorium: gli spettatori hanno voglia di immaginare mondi. Ma perché? Una prima risposta è che questa realtà non ci va bene e che sentiamo il bisogno di modificarla: raccontare una storia è quindi un primo step che ci aiuta a pensare al cambiamento. Temporin aggiunge un dettaglio: certo, il libro è una maschera per raccontare una storia, ma non una storia qualunque, quella di ognuno di noi, un io che si trasforma e scopre se stesso. Il viaggio dell’eroe, ma in chiave introspettiva, se non mistica; ed è un modo pop di raccontare una storia. Perché è una storia che entra in risonanza con la maggior parte delle persone e questo aiuta a veicolarne il messaggio.

Un libro è quindi un’occasione per studiare la realtà di ogni individuo e per obbligare ciascuno a riflettere, usando allo stesso tempo la leggerezza di una narrazione pop, che diverte aiutando però a diffondere un contenuto. A questo punto, ci viene in mente qualcosa che abbiamo sentito a Stranimondi, l’utilizzo della fantascienza promosso dal governo cinese per migliorare la creatività dei suoi scienziati: che anche in questo ci sia lo zampino della Fondazione? I due scrittori non fanno riferimento all’attività dell’Agenzia, ma aprono il discorso, ancora, alla responsabilità del narratore, sostenendo che la creatività ha anche un aspetto sociale. La società in cui viviamo influenza le nostre storie (o viceversa) in maniera molto stretta: se ci sono pochi eroi in una società, ci sono pochi eroi anche nelle storie. E visto che l’immaginazione ha un grado di lontananza dal lettore pari a zero, il narratore è investito di una forte responsabilità: se tutto ciò che è immaginabile è possibile, se l’immaginario sta fuori da quella scatola chiusa che oppone il reale e il fantastico, questa facoltà che tutti abbiamo, l’immaginazione appunto, diventa un potere non super che tutti possiamo usare, consapevoli dei rischi.

Rimaniamo in silenzio, consapevoli che quella che doveva essere un’indagine su due presunti agenti di una presunta Fondazione si è trasformata in una discussione sul ruolo della narrativa: il romanzo che abbiamo tra le mani ha ondeggiato, nel tempo, dalla storia del dodicenne Leo a una riflessione di meta-letteratura. Quando prendiamo fiato per una nuova domanda, i due autori sono scomparsi, inghiottiti dalla folla di Lucca. Rimaniamo, con il libro in mano (una dedica, in prima pagina, che ci invita a scavare nei mondi dell’immaginario) e ancora il dubbio sulla reale identità dei due scrittori/agenti. Qualcosa, però, ci risuona nella mente. Immagina, dice una voce, ma stai attenta a quello che immagini. La Fondazione ti ascolta e, soprattutto, ti legge. E mentre risistemiamo sul comodino il libro che stiamo finendo di leggere, ci attraversa l’idea che ne possa fuoriuscire un’orda di gatti mannari o di tartarughe zombie: fino a che punto sarebbe giusto o auspicabile mettere nelle mani di un’autorità il nostro immaginario?