Specchiandosi nel bronzo si può modificare il proprio aspetto;

specchiandosi nella Storia si può comprendere

l’ascesa e il declino di uno Stato;

specchiandosi nei buoni si può distinguere

ciò che è giusto da ciò che non lo è.

LI SHIMIN, IMPERATORE T’ANG TAIZONG

Parte prima

1

Spesso, a Xinan, aveva passato le serate in compagnia dei suoi amici tra i mille rumori, la giada, l’oro e la polvere della città, sorseggiando vino speziato assieme alle cortigiane nel DistrettoNord.

Ascoltavano le melodie di flauti e liuti pipa declamando poesie, mettendosi alla prova l’un l’altro con mottetti scherzosi e citazioni. Avolte si appartavano in qualche stanza nascosta con una donna dalla pelle profumata, di seta, prima di dirigersi verso casa con passo incerto al suono dei tamburi dell’alba, che segnavano la fine del coprifuoco. Avrebbero dormito tutto il giorno invece di dedicarsi ai loro studi.

Qui invece, nell’aria tersa e pungente delle montagne che sovrastavano le acque del Kuala Nor, molto a ovest della città imperiale, e perfino oltre i confini dell’impero, solitario, Tai si coricava sul suo giaciglio al calar della notte, con lo scintillio delle prime stelle, destandosi all’alba.

In primavera e in estate veniva svegliato dal canto degli uccelli che si riunivano in stormi rumorosi per nidificare: falchi pescatori e cormorani, anatre selvatiche e gru. Le anatre gli riportavano

alla mente i suoi amici lontani. In poesia, così come nella vita, quegli uccelli selvatici erano un simbolo di assenza. E le gru rappresentavano la fedeltà, ma quella era un’altra storia...

D’inverno il freddo era spietato, da mozzare il respiro. Le pareti del capanno non bastavano ad arginare gli assalti del vento del Nord che ululava, furioso, all’esterno. Dormiva protetto da una spessa coltre di pellicce e pelli di montone, e non c’erano canti di uccelli a svegliarlo dai terreni di cova imprigionati nella morsa del ghiaccio, dall’altra parte del lago.

Gli spiriti vagavano per quelle terre in ogni stagione. Uscivano nelle notti illuminate dalla pallida luna e nel buio, appena il sole nascondeva il suo volto.

Tai aveva imparato a riconoscere le loro voci. Le voci rabbiose degli spiriti in collera, i lamenti degli spiriti perduti, e quelle in cui un pianto sommesso e straziante non dava spazio ad altro che al dolore.

Non lo spaventavano. Non più, ormai. All’inizio aveva creduto che sarebbe morto di paura, nelle sue prime notti lì, da solo con gli spiriti.

Da una finestra senza scuri, durante le notti di primavera, estate e autunno, osservava l’esterno senza mai osare uscire. Aveva capito che sotto lo sguardo della luna e delle stelle il mondo intorno al lago apparteneva a loro.

Fin dall’inizio si era imposto una routine per affrontare la solitudine, la paura e l’immensità del luogo in cui si trovava. Un sant’uomo o un eremita si sarebbe forse comportato diversamente

sulla sua montagna o nella sua foresta, attraversando i giorni come foglie mosse dal vento, permeato dall’assenza di volontà e di desiderio, ma la natura di Tai era diversa. Non era un santo.

Cominciava le sue giornate con le preghiere per suo padre. Era ancora formalmente in lutto, e il compito che si era imposto di portare a termine sulle distanti rive di questo lago remoto era un modo per onorarne e rispettarne la memoria.

Dopo le preghiere di rito, che immaginava stessero compiendo anche i suoi fratelli, rimasti nella casa dove erano nati, Tai si dirigeva verso il prato, una verde spianata punteggiata da fiori selvatici o coperta da ghiaccio e neve che crepitavano sotto i suoi passi, e lì – a meno che non si scatenasse una tempesta – si dedicava alla pratica dei suoi esercizi kanlin. Senza spada, poi con una spada, e infine con entrambe le lame.

Il suo sguardo correva dalle fredde acque che abbracciavano l’isolotto al centro del lago alle montagne ammantate di neve che lo circondavano, meravigliose, arroccate l’una sull’altra. Oltre i picchi settentrionali, la terra digradava per centinaia di li verso le immense dune dei deserti senza ritorno, lungo i cui confini serpeggiavano le vie della seta, portando ricchezze e

benefici alla corte e all’impero del Kitai. Alla sua gente.

D’inverno doveva prendersi cura del suo piccolo cavallo selvatico, procurandogli cibo e acqua e tenendolo al riparo nella stalla costruita accanto al capanno. Quando il tempo migliorava

e l’erba tornava a ricoprire la terra, lasciava che pascolasse libero durante il giorno. Era tranquillo, non sarebbe scappato. Del resto, non c’erano posti in cui scappare, lì.

Dopo aver completato gli esercizi, cercava di accogliere la quiete dentro di sé, di lasciarsi dietro il caos della vita, di perdere ogni ambizione o aspirazione. Cercava di rendersi degno

del compito che lo aspettava.

Solo allora cominciava a seppellire i morti.

Fin dal primo momento in cui era arrivato in quel posto, non aveva mai fatto nessuno sforzo per separare i soldati Kitan dai soldati Taguran. Erano ammucchiati in un grovigli inestricabili, mucchi più o meno grandi di ossa e teschi sbiancati. Da tempo la loro carne era stata portata via dalla terra, dagli animali e dagli uccelli necrofagi. Per quelli delle campagne più recenti, non era passato poi così tanto tempo.

L’ultimo conflitto era considerato un trionfo, anche se ottenuto a caro prezzo: quarantamila morti in un’unica battaglia, quasi in pari misura tra Kitan e Taguran.

Suo padre aveva combattuto in quella guerra. Un generale, onorato per il suo impegno con il titolo di comandante dell’Ala Sinistra dell’Occidente Pacificato. Ricompensato magnificamente

dal Figlio del Cielo per quella vittoria: ricevuto in udienza privata nel Padiglione della Brillantezza del Palazzo Ta-Ming una volta tornato dal fronte, decorato con la fascia porpora, premiato con parole di lode dalla voce dell’imperatore in persona, e onorato dal dono della giada passata dalla

mano dell’imperatore attraverso quella di un solo intermediario.

I membri della sua famiglia avevano innegabilmente beneficiato degli eventi accaduti al lago. Fianco a fianco, la madre e la seconda madre di Tai avevano bruciato incenso e acceso candele in segno di gratitudine verso gli antenati e gli dèi.

Ma per il generale Shen Gao la memoria di quella battaglia era stata, fino alla sua morte avvenuta due anni prima, motivo di orgoglio e insieme di profondo dolore. Un dolore che lo aveva segnato a vita.

Troppi uomini avevano perso la vita per un lago ai confini del nulla; un lago che non sarebbe stato, alla fine, governato da nessuno dei due imperi.

Così stabiliva il trattato che aveva fatto seguito allo scontro, legittimato da elaborati scambi e rituali e, per la prima volta, dal matrimonio di una principessa Kitan con un re Taguran.

Da bambino, sentendo i numeri di quella battaglia – quarantamila morti – Tai era incapace perfino di immaginare quel che doveva essere stato. Ora, finalmente, capiva.

Il lago e la pianura riposavano tra due fortezze solitarie, controllate in passato dai due imperi – a sud i Taguran, a est i Kitan. In quel luogo, il silenzio regnava ora incontrastato, rotto soltanto dal fischio del vento, dai versi degli uccelli e dalle voci degli spiriti.

Il generale Shen aveva parlato del suo rimpianto e del suo senso di colpa soltanto ai suoi due figli più giovani, mai al primogenito. Tali sentimenti, in un uomo di comando, potevano considerarsi biasimevoli, come un tradimento: un affronto alla saggezza dell’imperatore che governava col mandato del cielo, infallibile, impossibilitato a fallire, per non mettere a rischio il suo trono e il suo paese.

Tuttavia quei pensieri erano stati espressi più di una volta, dopo che Shen Gao si era ritirato nella loro villa lungo la riva meridionale del fiume Wai, di solito dopo aver passato una piacevole giornata bevendo vino, deliziato dalla vista delle foglie o dei boccioli di prugno che cadevano in acqua e si perdevano nella corrente. E la memoria di quelle parole era la ragione principale per cui il suo secondogenito si trovava lì durante il periodo di lutto, invece di essere a casa.

Qualcuno avrebbe potuto pensare che il muto rimpianto del generale fosse inopportuno, fuori luogo; che quella battaglia fosse stata necessaria per difendere l’impero. Non sempre infatti le armate del Kitai avevano trionfato sui Taguran. I re di Tagur, dai loro distanti altopiani facilmente difendibili, nutrivano grandi ambizioni. Vittorie e violenze avevano segnato entrambe le parti per più di centocinquant’anni di combattimenti sulle rive del Kuala Nor, oltre i Cancelli di Ferro, la fortezza più isolata dell’impero.

‘Un migliaio di miglia nel chiaro luna, a est del Ferro’, così scriveva Sima Zian, l’Immortale Esiliato. Non era letteralmente così, ma chiunque fosse stato alla Fortezza dei Cancelli di Ferro sapeva bene cosa intendesse dire il poeta.

E Tai si trovava a diversi giorni di viaggio a ovest del forte, oltre quell’ultimo avamposto dell’impero, assieme ai morti. Assieme alle anime perse nella notte, assieme ai resti di centomila

soldati, pallidi sotto la cupa luna o nel sole di mezzogiorno. A volte, circondato dal suo giaciglio dalla profonda oscurità delle montagne, si rendeva conto che alcune di quelle voci che aveva imparato a riconoscere erano improvvisamente cessate, e capiva di aver finalmente dato riposo alle loro spoglie mortali.