Mentre Frodo e Sam continuano il loro faticoso viaggio verso il Monte Fato accompagnati dal viscido Gollum, gli eserciti di Rohan si raccolgono a Minas Tirith per dare aiuto a Gondor e fronteggiare le armate di Sauron. Aragorn, Legolas e Gimli percorrono il sentiero dei morti alla ricerca di pericolose alleanze e Gandalf cerca di convincere l'inetto sovrintendente della città bianca di Minas Tirith a formare un esercito. Sui campi di Pelennor il nemico sferra l'estenuante attacco finale alla Terra di Mezzo.

Noi, Gollum delle platee, siamo finalmente soddisfatti: il tesssoro è nostro. Lo schifoso hobbit Peter Jackson si è deciso a rivelarlo, e il nostro tesssoro è uscito dagli antri bui del distributore per arrivare in mille sale italiane. Eccoci qui, abbiamo nelle mani l’anello (il cerchio, con questo capitolo finale, si è finalmente chiuso) e dobbiamo decidere, come Frodo, se dirigerci verso il Monte Fato e distruggerlo o tenercelo.

"La trilogia ora non è più nelle mie mani ed è in quelle di coloro che sono i destinatari di questo film" dice lo hobbit regista e noi, bramosi anche di un solo sguardo, ora abbiamo gli occhi colmi delle meraviglie della Terra di Mezzo. Dobbiamo ringraziarlo: la nostra necessità di un crescendo di spettacolarità è stata soddisfatta. Scene colossali, travolgenti: la potente cavalcata dell’esercito dei morti; le bianche mura di Minas Tirith abbrancate a un vertiginoso sperone roccioso; la terrificante aracnide Shelob; la più grande battaglia filmata del nostro tempo.

Lode al grande ladro Jackson: ha fatto di tutto per rubarci la fantasia e ci è riuscito. Chi oserà dare un volto diverso da quello di Sean Astin al buon Sam fra coloro che hanno visto la trilogia; e come sarà possibile immaginare Gandalf in sembianze difformi da quelle di sir Ian McKellen? Se pensassimo a una fisionomia diversa per Frodo, sentiremo gli occhioni sgranati di Elijah Wood giudicarci con riprovazione.

Jackson prende e lascia allo stesso tempo. Una Moria più cupa e grandiosa di quella rappresentata nel primo capitolo (ma ormai possiamo tranquillamente parlare di un unico film) supera le nostre capacità immaginative; le incredibili scene di battaglia scuotono via come polvere tutto ciò che pensavamo sapere sugli assalti all’arma bianca, mentre ancora la frusta del temibile Balrog schiocca minacciosa dal profondo dell’abisso. Mille altri esempi si potrebbero aggiungere alla galleria di quadri che compone l’intera trilogia.

E’ una scelta difficile: distruggere l’anello e liberare la mente da tutti gli spettacolari fotogrammi che la marchiano a fuoco, oppure infilarlo al dito per poter essere catapultati nella Terra di Mezzo che Jackson ha confezionato per noi e che, diciamolo, non ha eguali per ricchezza e completezza.

La verità è che nessuno, se non la nostra fantasia, avrebbe potuto darci quello che Jackson ci ha dato, e nessuno, probabilmente, avrebbe avuto altrettanto coraggio.

Siamo i soliti Gollum, perennemente insoddisfatti e in bilico tra la critica di colpevole infedeltà al testo originale e l’estasi per l’impresa mozzafiato, essenza della magia cinematografica.

Lode al grande condottiero di eserciti, che vince la sua battaglia e lascia noi, suoi soldati, esausti come se fossimo stati sui campi di Pelennor.

Lode al grande ladro: ruba con stile e lascia un ricco biglietto da visita (io, che sono un debole, l’anello me lo tengo, grazie).

Franco Clun

Epico e visivamente potente, il Ritorno del Re è un film cupo e disperato, una storia di eserciti e di bianche città sotto assedio, di persone qualunque costrette dalle circostanze a trovare l'eroe che è in loro.

L'emozione di fondo che domina il film è dipinta alla perfezione sul volto di Pippin quando, sulle mura di Minas Tirith assediate dagli orchi, ascolta le parole di Gandalf e capisce che tutti loro stanno andando a morire.

Il fatto che dopotutto la morte non sia un brutto posto è una ben magra consolazione.

Cieli tempestosi, pieni di fuoco, e le grida assordanti dei Nazgul, fanno da sfondo ad architetture umane e naturali maestose e terribili, con sviluppi verticali così vertiginosi da togliere il fiato. Le candide mura concentriche di Minas Tirith, il palazzo che - quasi come una cattedrale - si erge sulla piana come la prua di un'immensa nave, le inquietanti colonne di Minas Morgul illuminate da una verdognola luce d'oltretomba e sopra di essa Cirith Ungol, una scala verso il cielo intagliata da mani sovrumane su un dirupo pauroso. In questi paesaggi emergono con prepotenza le storiche linee di Alan Lee, Ted Nasmith e John Howe, in cui a volte sembrano insinuarsi, soprattutto a Mordor, suggestioni che richiamano le architetture oniriche di Druillet e gli incubi d'ossa di H.R.Giger.

La natura neozelandese, in questo contesto, fa la sua parte in modo superbo: esaltante la sequenza aerea che segue il fuoco che divampa dalla torre di Amon Din e si propaga come un disperato grido d'aiuto tra le montagne innevate, oltre il giorno e la notte.

E' in questi paesaggi che si muovono gli eserciti di Mordor, orchetti numerosi come formiche, macchine da guerra che sputano fuoco, olifanti inferociti sotto nugoli di frecce. Impressionanti le scene di marcia, le orde di orchetti che scandiscono "Mordor!", esaltante la carica dei Rohrrim, superbi cavalli e cavalieri in armatura scintillante che avanzano all'unisono in fila perfetta sulla piana di Pelennor, incredibile l'avanzata dell'esercito dei morti, come un fiume impetuoso di anime dannate.

In questo tripudio visivo e auditivo (la colonna sonora è commento superbo alle immagini) che privilegia il paesaggio e le scene di massa, i personaggi tendono a scolorire, anche perché assai poco spazio è lasciato ai dialoghi e all'approfondimento dei sentimenti e dei conflitti interiori.

Negli occhi di Aragorn non brilla mai la luce dei grandi eroi: c'è solo l'eroica e consapevole rassegnazione a un ruolo che gli è sempre andato largo, come un paio di stivali di tre numeri più grandi.

Frodo resta la solita figura debole e tragica del libro, quella che si finisce per sopportare a stento: sempre più magro e sporco, sempre più lamentoso, con enormi occhi blu che ormai dominano il suo volto segnato dal peso dell'Anello. E Sam? E' il suo amore di scudiero a sospingere Frodo verso la meta, come un vento testardo: forte di braccio e di spirito, ottimista fino a sembrare ottuso, il giardiniere che si fa eroe suo malgrado dà tutto senza chiedere niente in cambio.

Gandalf, bianco e sfolgorante con il suo bastone magico sempre in mano, cavalca per tutto il film, quasi avesse perso la capacità di usare le gambe, e parla troppo poco: peccato, perchè la voce vibrante di Ian McKellen è sempre magica. Gli altri personaggi restano decisamente e ingiustamente sullo sfondo.

Merry e Pippin, che in questo film corrono finalmente da soli e non più in tandem, attraversano la tragedia della guerra senza perdere l'innocenza dell'adolescenza, che si fa poesia nella canzone di Pippin davanti a Denethor, il vecchio sovrintendente di Gondor spezzato dalla perdita del figlio Boromir. L'altro figlio, Faramir, il bello e sensibile capitano di Gondor, accetta di sottostare a una prova terribile e ingiusta per dimostrarsi all'altezza del fratello, ma anche la sua storia appare incompiuta.

Eowyn, figlia di Theoden, è forte e coraggiosa ma sappiamo che il suo cuore batte per l'uomo sbagliato. Legolas e Gimli si perdono nelle scene di gruppo, e ci rattristano le battutine dell'orgoglioso nano, ridotto al ruolo di comic-relief della storia.

Un film cupo e terribile, dunque, che completa con maestria il percorso narrativo e visivo della trilogia, sciogliendosi in un epilogo sognante: lunga vita al Re.

Elisabetta Vernier

All'indirizzo http://www.fantasymagazine.it/cinema.php/27 potete trovare la recensione della versione anglofona. Il giudizio non cambia, ma il recensore sì.