Salta Ayon, adesso!»

La voce di Suria mi fece sussultare. Ero sul ciglio di un baratro da cui saliva una brezza gelida che mi gonfiava la veste e mi arruffava i capelli.

«Non abbiamo più tempo, salta adesso» ripeté mio padre. Erano solo due metri, dovevo prendere la rincorsa e spiccare un balzo. Non era così difficile.

Ce la posso fare, mi convinsi.

Indietreggiai di qualche passo, deglutii e iniziai a correre con tutta la forza che avevo nelle gambe, puntai il piede sull’ultima sporgenza e saltai.

«Ti ho presa, piccola mia! Ce l’hai fatta» esclamò Suria stringendomi tra le braccia. Tre­mavo e faticavo a respirare, ma gli risposi con un debole sorriso.

Ebbi solo un secondo per riprendermi. Suria mi afferrò la mano e iniziò a correre tra i fumi della periferia. Sopra di noi, la ragnatela di fili elettrici e neon si faceva meno fitta e la luce irradiata era sempre più debole. Mi voltai per un istante a osservare le baracche dove ero vissuta per otto anni, con la convinzione che quel luogo fosse tutto il mio mondo e il mio solo futuro. Lanciai uno sguardo all’immensa colonna centra­le, la Torre Portante, così come la chiamavano. Un pilastro massiccio, una montagna di roccia che si alzava dal pavimento per poi scomparire oltre il reticolo di cavi.

Verso le tenebre, verso l’ignoto.

Non avevo avuto una vita facile, ma mi sentivo felice. Non avevo mai conosciuto mia madre, ero sempre vissuta nella città e tutto ciò che c’era al di fuori non mi interessava. Del resto era proibito avvicinarsi alla Portante, superare la linea di confine e spingersi verso il fiume. Era proibito anche farsi troppe domande, altrimenti si incorreva nella Ra­tifica, quindi nella Sanzione. In realtà non sapevo minimamente cosa fossero, ma il loro nome non prometteva nulla di buono. Sapevo solo che chi trasgrediva gli ordini spariva e veniva presto dimenticato.

Trascorrevo la giornata con gli altri ragazzi della mia età, in una baracca vicino alla base della Portante, aspettando con ansia che mio padre tornasse a casa la sera. Avevamo poche ore per stare insieme, perché il suo lavoro ultimamente si era fatto sempre più intenso. Si trascinava stanco per la camera, rispondeva a monosillabi, annuiva con espressione mesta. Si faceva una doccia veloce e crollava a letto dopo neppure mezz’ora, a volte saltando la cena.

Poi, poco meno di una settimana fa, successe qualcosa di diverso.

Mio padre era tornato prima del previsto e io l’avevo accolto con un abbraccio caloroso, mostrandogli l’ultimo disegno che avevo fatto quel giorno: una farfalla con le ali colorate di rosso, azzurro, giallo e verde. Basse colline sullo sfondo e un cielo con un sole enorme al centro. Così mi ero immaginata il mondo, aiutandomi con i racconti che Suria mi narrava la sera prima di andare a dormire e con un po’ di fantasia.

Con mia grande sorpresa, il volto di mio padre si velò di tristezza. Ci rimasi male, all’ini­zio pensai che non l’avesse apprezzato, invece fece qualcosa che non mi sarei mai aspettata: mi portò davanti al fuoco e mi disse che dovevamo fuggire.

«Fuggire per dove?» gli chiesi confusa. Nemmeno per un istante avrei immaginato che volesse superare i confini. Era proibito. Era una follia.

Ma Suria mi prese sulle ginocchia, dondolandomi dolcemente.

«È la nostra salvezza, piccola mia» mi rispose senza darmi ulteriori spiegazioni.

                                                      ***

«Ecco il fiume, Ayon.»

La voce di mio padre mi fece tornare alla realtà. Osservai l’acqua scura e oleosa, quindi scrutai oltre la riva opposta, dove un manto impenetrabile di tenebre avvolgeva ogni cosa.

Lui mi fissò dritta negli occhi. «Non avere paura. So come uscire da qui.»

Suria si era avvicinato alla sponda del fiume, fermandosi davanti a una catasta di lamiere arrugginite. Le spostò cercando di fare meno rumore possibile, rivelando così una zattera di legno. Mi invitò a salire con lui, e io obbedii. La sensazione di avere sotto i piedi una superficie instabile non mi rassicurò affatto.

Mio padre prese un lungo bastone e iniziò a conficcarlo nella profondità del fiume e a far leva. Mi strinsi tra le braccia, più ci allontanavamo dal mio mondo più avevo freddo. Suria se ne accorse e mi posò sulle spalle la sua giacca.

«Prenderai un malanno» mormorai battendo i denti.

«Ho un fisico robusto» mi rispose accennando un sorriso, mentre attraccava a una roccia. Poi la sua fronte si corrugò. Seguii il suo sguardo e notai dei piccoli mulinelli che si forma­vano sulla superficie del fiume.

«Sono arrivati! Sono arrivati» urlò fuori di sé.

«Chi? Sono arrivati…» Non finii di parlare che mio padre mi strattonò verso di lui, tra­scinandomi via.

Ci lanciammo in una corsa disperata, addentrandoci nel buio. In lontananza riuscivo ancora a distinguere i bagliori delle baracche, mentre davanti a me c’era solo un muro d’oscurità.