Questo libro è dedicato a tutti coloro che hanno condotto i fratelli nella valle delle tenebre e ritrovato i figli smarriti. 

Libro primo 

Rankstrail e l’impero dei fiori di mandorlo 

Benedetto sia colui che nel nome della carità, 

e della buona volontà, 

conduce i deboli attraverso la valle delle tenebre, 

perché egli è in verità il pastore di suo fratello 

e il ricercatore dei figli smarriti. 

EZECHIELE 25, 19 

1 Chiara. 

 

Chiara, come l’acqua e la luce 

Ancora più importante delle cose è il senso che noi diamo al loro accadere. 

Fu quando suo padre scomparve che Chiara finalmente smise di esserne orfana. 

La storia di Chiara cominciava con il suo concepimento, il primo giorno dell’inverno del trecentesimo anno dalla liberazione di Daligar. Quella era stata l’ultima volta che Rankstrail suo padre, re di Varil, aveva visto la sua sposa Aurora viva, l’ultima volta che l’aveva sentita respirare, ne aveva sentito l’odore. L’ultima volta che i loro corpi si erano uniti. 

Chiara era nata da quell’unione: così erano nati il suo corpo e la sua anima, e dentro di lei, nel suo corpo e nella sua anima, c’era qualcosa di suo padre e di sua madre e di tutta l’apocalittica genealogia di cui lei era la discendenza. Un branco di Orchi in una notte di vento e di fuoco, una principessa del popolo degli Elfi, un tiranno folle, crudele e criminale, una  povera lavandaia che non si era arresa mai si erano incontrati e scontrati sotto le stelle, sopra la terra, perché lei, la piccola e brutta principessa di Varil, potesse nascere e respirare. 

Tutto questo però lei lo scoprì solo al quarto anno di vita. 

Fino a quel definitivo chiarimento, il suo esistere fu punteggiato da uno straordinario numero di dubbi dolorosi e da uno straordinario numero di certezze desolanti. Lei era brutta, inutile, era un danno, un errore, non era stata voluta, nascendo aveva ucciso la sua stessa madre. 

Chiara era stata affidata a zia Fiamma, sorella di suo padre, sposata allo zio Erik e madre di una nidiata di cugini che andavano da Helser, il maggiore, nove anni più di Chiara, fino ad Aila, sua coetanea. Zia Fiamma era calda e forte, aveva un odore dove a quello della pelle si mischiavano latte e lavanda. Lo zio Erik aveva un odore dove si riconoscevano il cavallo e il metallo. Chiara impiegò tempo a capire che l’odore metallico che aveva impregnato tutte le giubbe non apparteneva allo zio, ma alla corazza, che portava sempre per le continue esercitazioni. Helser, Gonia e Mark, i tre cugini grandi, se ne stavano per i fatti loro e non erano un problema. 

Il problema erano invece Antrin e Gesciua, i due cugini di mezzo. Non avevano perdonato che a condividere lo smisurato affetto e il limitato tempo della loro madre fosse venuta anche Chiara. Lei era l’estranea, l’uovo di cuculo nel nido. 

«Forse ti credi che nostra mamma è anche la tua, ma è una sciocchezza, grossa, grossa grossa, grossa come le risaie» diceva Antrin. 

«Scordatelo, perché non è vero» rincarava Gesciua. 

In effetti sarebbe stato un pensiero logico, però Chiara era certa di non averlo mai pensato. 

Il primo ricordo che aveva erano Antrin e Gesciua chini sulla culla, le dicevano che lei non era figlia della loro mamma, era un’intrusa, e persino allora lei aveva pensato di saperlo già, questo se lo ricordava. 

Quel giorno fu l’inizio di una lunga persecuzione. 

Chiara stava imparando a gattonare, i primi esperimenti sulla nobile arte di spostarsi su mani e ginocchia, quando la conversazione dei cugini introdusse un nuovo argomento. 

«Lo sai che di te a tuo padre, il re di Varil, non importa un fico?» cominciava Antrin. 

«Per questo che noi ti dobbiamo tirare su come se eri una di noi, che invece non è vero che lo sei, sei come uno scialle che è stato lasciato su una panca quando piove, che poi è bagnato e non serve più a niente» rincarava Gesciua, l’altro cugino. 

Curiosamente tutti, anche zia Fiamma, continuavano a confondere Antrin e Gesciua: Antrin aveva negli occhi una sfumatura più chiara, Gesciua era quello con la cicatrice a forma di luna sulla mano, ma soprattutto era evidente che Antrin parlava in maniera più incisiva e corretta, ma era Gesciua ad avere l’eloquio più immaginifico. 

E a ogni buon conto, quel suo essere un’intrusa, l’uovo di cuculo nel nido dei passeri, i due cugini glielo ripeterono tutte le volte che ci fu l’occasione, tutte le volte che nessun adulto era nei paraggi.