Arthur Howitzer Jr. ha convinto il padre, proprietario di un giornale in Kansas, a finanziare il suo progetto di un inserto domenicale, spostando però la sua redazione in Francia nella città di Ennui-sur-Blasé. "The French Dispatch" diventa presto una rivista capace di radunare nella sua redazione le migliori penne del paese, spaziando dalla politica e al racconto delle lotte studentesche, all’arte con la storia di un bizzarro artista pazzo e omicida, ai viaggi, fino alla cucina di un illustre cuoco del distretto di polizia dove il figlio del commissario è appena stato rapito. Quando Howitzer muore per un improvviso attacco di cuore lascia scritto nel suo testamento che il suo necrologio sarà anche l’ultimo numero della rivista, così tutti i giornalisti si radunano per rendere omaggio al loro capo e ricordare vecchie storie.

Questa volta Wes Anderson con la sua nuova pellicola già presentata al Festival di Cannes, usa la struttura del film ad episodi, disgregando in quattro storie diverse tante sono le sezioni della rivista, la costruzione della pellicola. Già in altri suoi lavori precedenti spesso venivano impiegate delle parentesi narrative con disgressioni che potevano apparire dei veri e propri cortometraggi, ma The French Dispatch è ancora più frammentato poiché le tre storie principali ospitano al loro interno molti flash back. Eppure, nonostante la complessità non è difficile ricostruire gli avvenimenti in un universo fatto di personaggi presentati, com’è tipico di Anderson, come forme parlanti, si muovono e si vestono volutamente come dei cliché. Persino di più che in Grand Budapest Hotel, o in film di animazione come L’isola dei cani, ogni elemento di The French Dispatch è incasellato in uno stereotipo. Così il pittore pazzo interpretato da Benicio del Toro è sempre sporco di pittura, Frances McDormand è la battagliera cronista zitella in tailleur, Timothée Chalamet è lo studente dai capelli scapigliati con il sigaro in bocca e così via.

Con The French Dispatch Anderson ha chiaramente spinto la sua estetica e il suo modo di fare cinema vicino alla pura animazione tanto che, in alcuni momenti il film diventa addirittura un cartone animato. Se non fosse per la bravura di un cast stellare che è anche uno dei pregi del film, i personaggi potrebbero essere sostituiti da quelli di un fumetto per bambini. Ma sta proprio in questo scarto tra bidimensionalità dei protagonisti e la tridimensionalità del mondo il fascino del cinema di Anderson, nel mostrare l’interno di sottomarini, (Le avventure acquatiche di Steve Zissou), di alberghi (Grand Budapest Hotel), tane (Fantastic Mr. Fox) e in questo caso aerei, come dei modellini in cui però la gente reale può viverci dentro. The French Dispatch porta alle estreme conseguenze questo discorso e le quattro storie non sono che un pretesto per raccontare mondi fantasmagorici dove ogni singola inquadratura è pensata nel minimo dettaglio, così come ogni movimento di macchina. Non si tratta semplicemente di quadri con campi lunghi fissi ma c’è soprattutto l’interazione tra immagine e movimento che solo il cinema può dare. Se in quello di animazione la composizione stessa del fotogramma è per sua natura programmata in ogni dettaglio, Anderson fa lo stesso con la realtà, togliendo al mondo ogni incognita e mettendo in quadro solo ciò che vuole che ci sia.

Infine, il gioco tra cambio di formato che passa da sedici noni a quattro terzi e colore che diventa bianco e nero senza un significato diegetico particolare, allontana The French Dispatch ancora di più dall’oggettività. Un gioco questo che non conosce mezze misure, nato per divertire e che sarà sicuramente apprezzato da coloro che già amano il cinema di Anderson ma che è probabile annoierà a morte tutti gli altri.