Un’umanità di servi e signori abita un mondo pervaso da una magia sottile e inquietante, fra intrighi di corte e minacce di misteriosi pirati in grado di manipolare le loro vittime privandole di ogni forma di raziocinio e sentimento.

Tra questi pericoli si aggira il giovane Fitz, un “bastardo” di stirpe reale, figlio illegittimo dell’erede al Trono dei Sei Ducati, il Principe Chevalier, che all’età di sei anni viene portato e lasciato al palazzo reale dal nonno, stanco di mantenere un nipote illegittimo, testimonianza della perduta virtù della figlia. Fitz viene affidato alle cure di Burrich, uomo di fiducia e stalliere del Principe. Il ragazzo non conoscerà mai suo padre: Chevalier infatti abdica in favore del fratello minore, Veritas, abbandonando la Corte a causa della sterilità della moglie e dello scandalo del figlio illegittimo. Il Re Sagace, contrario all’esilio del suo erede, accoglie Fitz e fa in modo che venga addestrato alla sottile arte dell’assassinio dall’Avvelenatore di Corte, l’enigmatico Umbra.

Comincia così la vita e la crescita del ragazzo, che si divide tra il lavoro alle stalle, lo studio comune di tutti coloro che sono di stirpe reale e l’addestramento come assassino.

Questo è uno di quei fantasy della corrente recentemente rinvigorita da George Martin con le sue “Cronache del Ghiacco e del Fuoco”; più che un fantasy classico, con orchi, elfi e maghi, sembra un romanzo cavalleresco, dove però non manca una certa dose di magia, sapientemente dosata e tale da rendere assolutamente credibile lo svolgersi degli eventi. Qualcuno considera questo genere come un “fantasy adulto”. Personalmente non lo credo, anche perché non credo basti la mancanza di creature fantastiche come elfi, nani e orchi per definire un libro adulto. È però uno di quei romanzi che io chiamo “di formazione”, ovvero un libro in cui si assiste alla crescita psicofisica del protagonista; la conseguenza è che si apprezzano di più gli eventi che portano a determinate scelte, a cui spesso ci si rapporta personalmente. Non a caso più volte mi sono domandato: «Cosa avrei fatto io?»

L’Apprendista Assassino racconta di un universo drammatico, in cui la lotta fra il Bene e il Male non è mai una prevedibile guerra tra opposti inconciliabili, ma scontro umano tra fato e necessità, tra libera scelta e destino, tra personaggi la cui esistenza è sempre inevitabilmente imprevedibile.

Robin Hobb scrive molto bene e la traduzione mi sembra ottima; chi come me ha avuto modo di leggere l’originale inglese, non rimarrà deluso da questa edizione. Anche la scelta di scrivere in prima persona (gli eventi sono narrati come qualcosa di già accaduto, quindi, a dispetto di qualsiasi situazione, il narratore sopravviverà...), che in molti altri libri ho trovato pesante, risulta invece buona; il lettore si sente più vicino al protagonista e alla vicenda.

Il romanzo descrive minuziosamente la crescita, l’evoluzione e i dubbi di Fitz. Nella sua solitudine non è solo, il suo Wit, ovvero la capacità magica di comunicare e creare un legame con gli animali, dapprima lo aiuta a relazionarsi con il mondo animale, poi con quello umano: “Forse i tempi in cui sono nato aspettavano la mia nascita? Forse gli eventi si sono incastrati sferragliando come le grandi ruote dentate di legno dell’orologio di Sayntanns sospingendomi verso la vita? Non pretendo di essere stato un grande uomo. Eppure, se io non fossi nato, tante cose sarebbero diverse e migliori? Non penso.” dice lo stesso Fitz in apertura del libro.

Tutta la trama è estremamente credibile e al tempo stesso avvincente. Questo è uno di quei libri che vi faranno fare le ore piccole per finirlo e l’unica fatica sarà quella di obbligarsi a chiuderlo.