Charlaine Harris

REAL MURDERS - Il club dei delitti irrisolti

Capitolo primo

– Stanotte vi voglio parlare del più affascinante fra gli omicidi misteriosi, il caso Wallace – dissi allo specchio, in tono entusiasta.

Poi provai un tono sincero, e subito dopo uno serio.

Intanto, il pettine mi s’impigliò nei capelli.

– Accidenti! – esclamai, e provai di nuovo: – Ritengo che il caso Wallace possa riempire l’intero programma della serata – dichiarai, questa volta con fermezza.

Eravamo dodici membri regolari, il che funzionava alla perfezione con lo schema di dodici incontri all’anno, anche se naturalmente non tutti i casi erano in grado di occupare un intero programma di due ore.

In quelle occasioni, il membro incaricato di presentare l’Omicidio del Mese, come lo chiamavamo scherzosamente, avrebbe fatto intervenire un ospite… qualcuno del dipartimento di polizia cittadino, uno psicologo che curava criminali o il direttore del locale centro assistenza alle vittime di stupro. Una o due volte avevamo guardato un film.

Io però ero stata favorita dall’estrazione a sorte, perché il caso Wallace offriva materiale a sufficienza, anche se non tanto da doverlo esporre in modo affrettato. Avevamo riservato due riunioni a Jack lo Squartatore: Jane Engle ne aveva gestita una per parlare delle vittime e delle circostanze concernenti i crimini, mentre Arthur Smith aveva condotto la seconda, illustrando le indagini condotte dalla polizia e le persone sospettate all’epoca.

Non si poteva lavorare al risparmio, quando si trattava di Jack.

– Gli elementi del caso Wallace sono i seguenti – continuai. – Un uomo che si faceva chiamare Qualtrough, un torneo di scacchi, una donna all’apparenza inoffensiva chiamata Julia Wallace e, ovviamente, l’accusato: suo marito William Herbert Wallace. – Mi raccolsi i capelli castani in una coda e cercai di decidere se arrotolarli sulla nuca, intrecciarli o fermarli semplicemente con una fascia per tenerli lontani dalla faccia. Optai per la treccia, che mi faceva sentire artistica e intellettuale. Mentre dividevo i capelli in ciocche, lo sguardo mi si posò sul ritratto incorniciato di mia madre, che lei mi aveva dato per il mio ultimo compleanno con un noncurante: “Hai sempre detto di volerne uno”. Mia madre, che somiglia molto a Lauren Bacall, è alta almeno un metro e sessantasette, trasuda eleganza fino alla punta delle unghie e si è costruita da sola un piccolo impero nel campo immobiliare. Io sono alta un metro e cinquanta scarso, porto grossi e rotondi occhiali dalla montatura di tartaruga, e ho realizzato il sogno della mia infanzia diventando una bibliotecaria. Mi ha battezzata Aurora, anche se la cosa non deve forse essere apparsa troppo eccentrica a una donna che portava il nome di Aida.

Cosa incredibile, io amo mia madre.

Sospirando, come spesso mi capitava di fare quando pensavo a lei, finii d’intrecciarmi i capelli con rapidità derivante dalla pratica, e controllai la mia immagine riflessa nel grande specchio: capelli castani, occhiali marrone, occhi castani, guance rosate (artificialmente) e una bella pelle (effettiva). Dal momento che dopo tutto era venerdì sera, avevo scartato gli abiti da lavoro, costituiti da una semplice camicetta e da una gonna, optando per un aderente maglioncino bianco e pantaloni neri. Giunta alla decisione che quell’abbigliamento non era abbastanza festoso per dissertare di William Herbert Wallace, legai un nastro giallo intorno alla sommità della treccia e m’infilai una felpa dello stesso colore.

Un’occhiata all’orologio mi disse che era tempo di andare, quindi mi misi un po’ di rossetto, afferrai la borsetta e scesi di corsa le scale. Là mi soffermai a dare un’occhiata alla zona giorno che occupava la parte posteriore della villetta a schiera, appurando che fosse tutto a posto, perché detestavo tornare in una casa in disordine, poi rintracciai il mio blocco per appunti e le chiavi, senza smettere di ripassare a mezza voce i fatti pertinenti il caso Wallace.

Avevo pensato di fotocopiare le vecchie e sbiadite fotografie del corpo di Julia Wallace e di farle circolare per mostrare la scena del crimine, ma avevo concluso che sarebbe potuto apparire macabro e che sarebbe stata di certo una mancanza di rispetto nei confronti della vittima.

Un club come il Real Murders appariva già abbastanza strano a quelli che non condividevano il nostro entusiasmo senza l’accusa di indulgere nel macabro, e noi tutti cercavamo di mantenere un basso profilo.

Nel chiudere la porta accesi la luce esterna, perché la primavera era appena iniziata, l’ora legale non era ancora entrata in vigore e anche se era presto fuori cominciava già a scurire. Rischiarato dalla luce intensa che sovrastava la porta posteriore, il mio patio circondato da un’alta recinzione appariva ben spazzato e pulito, come le rose che cominciavano a fiorire nei loro grossi vasi.