Turtledove aveva scelto di collocare la storia di Heinrich Gimpel e della sua famiglia nei primi anni 2000, quando cioè lo sterminio di un popolo era già stato compiuto e la trama era dominata da preoccupazioni quotidiane, allontanando il dramma in un passato dal quale trasparivano orrori vissuti dai protagonisti con un certo distacco. La stessa sorte toccata agli altri sarebbe potuta ricadere anche su di loro, ma la shoah era comunque un fatto compiuto e immodificabile, del quale si poteva solo prendere atto senza criticarlo.

Qualche anno prima, però, lo scrittore californiano aveva iniziato con Nell’oscurità la saga de La guerra dei regni, una vera e propria trasposizione in un’ambientazione fantasy della Seconda guerra mondiale.

Con aeroplani trasformati in draghi, leviatani al posto dei sottomarini, behemoth a quello dei carri armati e uova esplosive invece di bombe, gli eventi principali della guerra vengono rivisitati e proposti al lettore attraverso gli occhi di una moltitudine di personaggi.

La Germania diventa così il regno di Algarve mentre l’Unkerlant prende il posto dell’Unione Sovietica e il Forthweg quello della Polonia. La somiglianza non è sempre evidente a un primo sguardo, per esempio se si considera la differente situazione climatica può essere sorprendente scoprire affinità fra il regno di Zuwayza e la Finlandia, ma l’autore stesso ha dichiarato che proprio il fatto di scrivere un fantasy gli ha concesso una maggiore libertà di manovra, e che si è divertito a rimescolare un po’ le carte per creare qualche dubbio in più nei suoi lettori.

Quello che rimane drammaticamente costante è, anche qui, la presenza di un popolo guardato con sospetto prima e apertamente avversato poi. La storia della kauniana Vanai e di suo nonno Brivibas diventa uno specchio di quel che sarebbe potuta essere, e forse è stata, la storia di due ebrei polacchi negli anni ’40 dello scorso secolo.

Appartenenti a un popolo dalle antichissime tradizioni ma privo di una patria che possa definire sua i due, in particolare la ragazza, più consapevole del pericolo in cui si trovano, sono costretti a fronteggiare la crescente ostilità di coloro che li circondano.

Da dettagli apparentemente poco significativi – il disprezzo di alcuni vicini per via del diverso colore dei capelli o la sparizione da una scuola di un maestro kauniano – si passa a una situazione di tensione sempre maggiore, alimentata anche dai dubbi su quanto stia davvero accadendo.

Nel primo romanzo gli algarviani compiono rastrellamenti promettendo lavoro in imprecisate località situate più a ovest, ma è presto chiaro che qualcosa non torna. Come nota Ealstan "«Hanno preso giovani e vecchi, uomini e donne, finché non hanno raggiunto il numero che hanno ritenuto soddisfacente. Poi li hanno stipati nelle carrozze delle carovane e li hanno spediti a occidente, con niente altro se non i vestiti che avevano indosso. Come possono sperare di ottenere un lavoro decente da gente simile?»" si chiede. E subito dopo aggiunge "«Io credo che mentano circa le loro intenzioni. Penso che stiano facendo qualcosa…» Ealstan scosse il capo. «Non so cosa. Qualcosa di cui non vogliono parlare. Qualcosa che non può essere niente di buono.»" (7).

I suoi dubbi si rispecchiano nelle certezze di Vanai: "Dall’Ovest non tornava nessuno. Questo, per Vanai, era il fatto più importante della vita di Onygestun in questo periodo. Non tornava nessuno. Nessuno mandava il denaro delle paghe promesse dagli Algarviani. Nessuno mandava lettere né comunicazioni di altro tipo. Quel silenzio continuo e assordante, giorno dopo giorno, rendeva le voci che circolavano sempre più credibili." (8).

E alle voci e ai silenzi, col tempo, si aggiungono i fatti, e le scoperte sconvolgenti. Ci sarà modo così di vedere l’inorridita reazione di Pekka, studiosa occupata in quello che è il corrispondente del Progetto Manhattan, o di entrare all’interno di un campo, anche se in quest’ultimo caso alle terribili condizioni di vita sono dedicati solo alcuni rapidi accenni.

Altri imperi del Male

Quello di Turtledove è solo il caso più evidente di ispirazione di una saga dalla storia del Terzo Reich, ma la fantasy, con la contrapposizione fra Bene e Male caratteristica di molte sue opere, presenta spesso realtà totalitaristiche che devono essere combattute.

Già nel 1939 J.R.R. Tolkien in una conferenza (9) contrapponeva i lampi ai lampioni, spiegando che la fiaba preferisce occuparsi dei primi perché universali e non transitori, e quindi maggiormente capaci di toccare gli esseri umani nel profondo.

Tanti anni dopo Guy Gavriel Kay, che conosce molto bene l’opera del professore di Oxford per aver curato insieme a Christopher Tolkien la revisione del Silmarillion, ha sottolineato (10) che il genere consente l’universalizzazione di una storia. Paradossalmente, eliminando i dettagli che la legano a un tempo e un luogo specifici, afferma, questa viene distaccata dal contesto di cui fa parte per accostarsi maggiormente alla vita e al mondo del lettore.