Rand in fuga, ancora una volta. Dopo L’Occhio del Mondo, in cui scappava da creature di cui aveva appena scoperto tutta la terribile concretezza, dopo Il Drago rinato, quando aveva cercato di sfuggire a responsabilità che gli apparivano troppo grandi per le sue spalle e da aspettative riposte su quella che credeva essere la persona sbagliata, Rand fugge per salvarsi la vita.

Quella narrata ne Il cuore dell’inverno non è, però, una semplice ripetizione di eventi già vissuti in passato.

Ora l’ex pastore sa che non può più arrivare nessuno a salvarlo, come avevano fatto Moiraine, o Perrin e gli Asha’man, in passato, e che non può sperare di riuscire a nascondersi. I suoi movimenti non sono quelli disperati di chi cerca solo di sopravvivere ma atti ragionati, di chi non conosce ancora l’identità del suo nemico, nascosto dietro lo schermo del tradimento, ma che progetta un piano per farlo cadere in trappola e studia accuratamente le sue mosse.

In fondo si può riassumere in questa parola il nono romanzo del ciclo La Ruota del Tempo firmato da Robert Jordan: progetto.

Tutti progettano qualcosa, studiano le mosse degli avversari, valutano rischi e vantaggi, ma in definitiva agiscono poco. Giusto gli ultimi due capitoli, nei quali davvero si vede l’abilità dello scrittore scomparso nell’alzare improvvisamente la tensione e tenere il lettore col fiato sospeso e desideroso di scoprire cosa sta per accadere.

Se è vero che nella più classica dimensione della trilogia il libro più debole è quasi sempre il secondo, privo sia della potenza immaginifica e creatrice del primo che dell’epicità e drammaticità del conflitto finale presente nell’ultimo, qui, a due terzi della saga, si ritrovano proprio le difficoltà di gran parte delle storie di ampio respiro.

Le vicende narrate da Jordan, iniziate con gli elementi classici di fellowship e quest (compagnia e cerca) avevano trovato un punto di svolta nel quarto romanzo, L’ascesa dell’Ombra.

Lì improvvisamente gli orizzonti si allargavano, i vecchi protagonisti si separavano in modo più o meno definitivo per seguire il proprio cammino, e il protagonista diventava un mondo.

Ora questo mondo si è svelato nelle sue innumerevoli sfaccettature, e anche se la sorpresa è sempre dietro l’angolo, la missione da compiere perché allo scontro finale si possa arrivare con qualche speranza di successo appare ormai chiara. Restano solo da risolvere i problemi di percorso e gli eventuali imprevisti, ma la struttura è lì. La forma e le dimensioni della scacchiera sono state fissate, rimangono da posizionare i pezzi, e da scoprire il colore di alcuni di loro.

Con queste premesse la storia procede a rilento. Troppo, per chi ormai dopo diverse migliaia di pagine non è più interessato al modello dell’abito indossato dalla protagonista di turno – ammesso che ne indossi uno, viste certe usanze degli Aiel – e vorrebbe semplicemente sapere se il Drago trionferà. E se un suo eventuale successo provocherà una nuova Frattura del Mondo.

Sì, sono anche elementi come l’abbigliamento o le tradizioni dei diversi popoli, ad aver donato a questa storia tutta la sua straordinaria concretezza. I personaggi sono vivi, con i loro pregi e i loro difetti, e immediatamente riconoscibili malgrado il fatto che magari non si sia parlato della loro sorte per due-tre romanzi. E con un cast di personaggi così ampio non è un’impresa facile. Ma, per un’ambientazione che non delude le attese, quella che ne risente è la trama.

Interessante, certo. Il destino di Faile e delle sue compagne desta preoccupazione. La destava nello scorso libro, prosegue a destarne per questo e continuerà a destarne nel prossimo, quando la sua situazione migliorerà, o peggiorerà definitivamente. Si spera, perché vederla continuare a dibattersi negli stessi problemi per quattro romanzi potrebbe essere troppo anche per il più sfegatato dei fan.

Il problema del romanzo, in fondo, è tutto qui. Piccoli imprevisti che intralciano il cammino dei personaggi, piani che hanno bisogno di tempo per essere attuati, intrighi che seminano le premesse per un’escalation di avvenimenti che ancora non si vede.

Un lungo prologo per iniziare a mettere un po’ di carne al fuoco è seguito da una sezione dedicata a Perrin e Faile. Ma se in passato gli interventi del giovane fabbro erano sempre stati decisi e risolutori, qui fatica a far prendere agli eventi la piega che desidera.

Poi, una volta che l’occhio di Jordan si allontana da loro, del loro destino non si sa più nulla, e per sapere (forse) come andrà a finire non resta che attendere la prossima puntata.

Compare a più riprese Elayne, ma i suoi problemi, per quanto concreti, raramente riescono a interessare veramente il lettore. È affascinante la cerimonia che la vede protagonista del prologo, ennesima conferma dell’abilità di Robert di sviluppare con coerenza le varie caratteristiche di una cultura decisamente insolita, così come c’è un momento in cui la tensione sale all’improvviso, ma quando la situazione torna ad assestarsi, anche se non proprio a risolversi completamente, tutto scivola nuovamente in una complicata monotonia.

Egwene è quasi del tutto assente, intravista solo con gli occhi di chi la incontra. In compenso torna, e nello scorso romanzo se ne era davvero sentita la mancanza, Mat.

Si scopre qual è stato il suo destino al momento della famigerata invasione, e si assiste divertiti ai suoi improbabili tentativi per venir fuori da una situazione che non gli è esattamente congeniale. Le trovate più brillanti, i guizzi imprevedibili derivano proprio da lui, e dal suo incontro con la tanto attesa Figlia delle Nove Lune.

Dopo quattro romanzi uno dei semi piantati nella storia ha finalmente dato origine a una piantina, anche se ancora non si sa di che tipo saranno i suoi frutti.

Nynaeve, lasciata un po’ in disparte da quando ha ritrovato Lan, svolge un ruolo piccolo ma, almeno nelle ultime pagine, dal notevole peso, mentre trovano spazio punti di vista diversi da quelli che ormai conosciamo bene.

Seaine, Toveine, Asne, Mili, Bethamin, Egeanin, Shalon e i più noti Min, Cadsuane, Demandred e Verin arricchiscono la vicenda di ulteriori sfaccettature, ricordandoci che anche chi non è protagonista dei grandi eventi può fare la sua parte perché le azioni importanti vengano compiute, e che ogni cosa può cambiare aspetto se è vista con una diversa angolazione.

E poi c’è Isam/Luc, le cui vicende erano state narrate in diversi momenti nei passati volumi. Frammenti troppo lontani l’uno dall’altro, tanto da rendere difficile la ricostruzione di un quadro generale e da imporre quasi un controllo per verificare l’identità passata dei due personaggi. Ma in due sole pagine vengono svelati alcuni dei misteri durati più a lungo nell’intero ciclo.

Il filo conduttore, quello che attraversa tutte le vicende perché condiziona inevitabilmente le azioni degli altri personaggi, rimane comunque Rand. La sua fuga, e il suo tentativo di compiere qualcosa di ritenuto impossibile anche se necessario, e che lui va progettando da qualche migliaio di pagine, attraversano la storia fino all’epico conflitto finale.

Peccato che per arrivarci siano necessarie così tante divagazioni. La tensione finisce inevitabilmente per calare, frustrata da un’attesa che sembra interminabile.

Per contro, gli avvenimenti delle ultime trenta pagine si svolgono a un ritmo che definire incalzante sarebbe riduttivo. Non c’è più tempo per pensare, ora i protagonisti, di qualsiasi schieramento facciano parte, possono solo agire.

La tensione è altissima, tanto quanto la posta in gioco, e i punti di vista si succedono senza requie. Ciò che domina è la sensazione di caoticità e frammentarietà proprie di qualsiasi conflitto, in cui chi vi prende parte non può avere un’idea d’insieme di ciò che sta accadendo, troppo occupato a salvare la propria pelle. E la consapevolezza del pericolo, di un attacco che può arrivare da qualsiasi direzione, unita alla consapevolezza che non è detto che ci si possa fidare dei propri alleati, sono elementi che aggiungono altra carne al fuoco, creando un effetto talmente forte da rendere semplicemente impossibile interrompere la lettura prima della fine.

Chiuso il romanzo, quello che rimane è uno stordimento che può ricordare l’ebbrezza, e la consapevolezza che il mondo creato da Robert Jordan non sarà più lo stesso.

Un’ultima nota riguarda l’ingombrante oggetto che gli appassionati possono materialmente trovare nelle librerie.

La traduzione è stata affidata a Gabriele Giorgi. Dopo Gaetano Luigi Staffilano, la cui versione di L’Occhio del Mondo realizzata nei primi anni ’90 per Mondadori è stata ripresa da Fanucci, la tanto criticata Valeria Ciocci, che si è occupata dei successivi sei romanzi e del prequel e Nello Giugliano, cui si deve Il sentiero dei pugnali, un quarto nome si aggiunge all’elenco dei traduttori.

Malgrado quest’avvicendarsi non ci sono problemi nella resa dei termini, tradotti sempre coerentemente allo stesso modo. Non sempre però il discorso fila liscio come dovrebbe, e continuano a essere presenti molti fastidiosi refusi. Cose anche banali, che però costringono il lettore a interrompersi per un attimo per capire esattamente cosa stia accadendo.

Nell’ultimo capitolo, per esempio, si possono contare ben 20 cambi di punti di vista. Una sola volta, però, questo passaggio è segnalato da una riga bianca. In tutte le altre occasioni il testo scorre continuo, creando un senso di disorientamento per l’improvviso e non segnalato mutare della situazione.

In definitiva, il voto tiene conto di questi problemi tecnici così come del diverso livello d’interesse suscitato nel lettore durante il corpo principale del romanzo, decisamente troppo lento, e le scene finali assolutamente mozzafiato.