“Quando si sale in alto, tutti i sentieri sono lastricati di pugnali” recita un vecchio proverbio seanchan.

E davvero il cammino dei protagonisti di Il sentiero dei pugnali, tutti impegnati a modo loro nel tentativo di ascendere a una posizione più elevata, è irto di pericoli, proprio come se la strada da loro intrapresa fosse lastricata di pugnali.

Per certi versi l’ottavo romanzo della saga de La Ruota del Tempo è un’opera di transizione. I personaggi delineati da Robert Jordan sono vivi e continuano a mostrare nuove sfaccettature dei loro caratteri che li rendono sempre più affascinanti.

Per contro, sembra che la storia stenti un po’ a decollare.

Ampio spazio è dedicato alle vicende di Elayne e Nynaeve, Perrin, Rand ed Egwene. A Mat, lasciato in una situazione estremamente complicata al termine del volume precedente, è dedicata solo una breve menzione, che non svela nulla circa il suo destino.

Si ripropone quindi una scelta già compiuta ne I fuochi del cielo. In quell’occasione il ruolo dell’illustre assente era toccato a Perrin.

Con queste decisioni Jordan sembra voler sottolineare come nelle sue vicende non siano protagonisti solo alcuni personaggi eccezionali, fossero anche dei ta’veren in grado di plasmare il Disegno di un’Epoca intorno a loro, ma tutto un Mondo e le popolazioni che lo abitano.

A rimarcare ulteriormente quest’impostazione un breve ma significativo spazio è riservato a personaggi solo apparentemente marginali come Verin, Elaida, Logain e alcuni altri, fra i quali si trovano anche una manciata di Reietti e di Seanchan.

La Trama prosegue, anche grazie a fili meno importanti o luminosi ma ben decisi a ricavare per sé un proprio spazio nel Disegno finale.

Si accentua con questo romanzo la tendenza di Jordan, già iniziata alcuni volumi prima, a cambiare con minore frequenza il punto di vista da cui raccontare la storia.

La cosa è evidente soprattutto nella lunghissima serie iniziale di capitoli – ben sei, per un totale di quasi 200 pagine – dedicata alle gesta di Elayne, Nynaeve e Aviendha. E se la curiosità circa il possibile utilizzo della Scodella dei Venti non aveva fatto che crescere nei due romanzi precedenti, qui l’impressione è che ci voglia un po’ troppo tempo per arrivare a un’azione che concluda la vicenda. Anche se poi, come sempre in questa saga, una conclusione non è mai davvero tale, e ogni azione provoca delle conseguenze che danno nuovo slancio a tutta la Storia.

Inoltre, malgrado la lentezza nell’arrivare a un gesto tanto atteso, che in certi momenti può dare un’impressione di eccessiva staticità nella trama, il tempo impiegato nel cammino si rivela necessario per capire meglio le dinamiche del gruppo dei personaggi o per inserire frammenti d’informazioni che potranno essere utili in futuro.

Proprio la capacità dell’autore di pianificare la sua opera, e inserire con anni d’anticipo dettagli che il tempo avrebbe svelato sotto una nuova luce, rimane uno dei tratti distintivi della saga.

La minaccia paventata dal Tenebroso fin da L’Occhio del Mondo, quando questi diceva a Rand che Arthur Hawkwing aveva inviato per suo volere gli eserciti al di là dell’Oceano Aryth, sancendo “una condanna ancora da venire”, inizia a concretizzarsi in tutta la sua pericolosità.

Già le prime avvisaglie c’erano state ne La grande caccia, anche se il volume si era chiuso con un’apparente vittoria di Rand e dei suoi compagni. Ma il Corenne, il Ritorno, non può essere arrestato tanto facilmente, e i Seanchan si profilano minacciosi all’orizzonte.

Il Mondo, sembra volerci ricordare Jordan, è un luogo irto di pericoli, e chi si concentra su uno solo dimenticando tutti gli altri rischia di pagarne pesanti conseguenze.

Dei problemi sorti nei volumi precedenti solo uno sembra trovare la sua soluzione, anche se le cose non vanno esattamente nel modo sperato dai protagonisti. Per il resto, alcuni personaggi compiono dei piccoli passi avanti, spesso solo per trovare nuovi ostacoli sul loro cammino.

Le azioni si dilatano nel tempo, frenate dalla moltitudine di dettagli a cui prestare attenzione e da piccole vicende da narrare, finché a fine romanzo non ci si accorge che nello stesso mondo della Ruota, dopo oltre 800 pagine, è trascorso meno di un mese.

Tutto è interessante, o utile, ma allo stesso tempo è anche troppo lungo, e L’Ultima Battaglia sembra sempre più lontana, quasi nascosta dalle preoccupazioni contingenti.

Da segnalare, però, la continua evoluzione dei protagonisti. Jordan aveva dichiarato di voler narrare la storia di alcune persone comuni, e della loro progressiva perdita d’innocenza una volta entrati in contatto con una realtà più grande di quella che avevano conosciuto fino a quel momento.

In tutti questi romanzi i ragazzi di Emond’s Field sono enormemente cambiati. In modo graduale, tanto da non potersi individuare un momento preciso a cui far risalire uno stacco, perché spesso i grandi cambiamenti nella vita sono determinati da piccoli passi. Ciascuno apparentemente innocuo e insieme indispensabile, figlio di un passato che avrebbe potuto essere leggermente diverso, e non portare mai a dover compiere determinate scelte. Finché le persone, o i personaggi di un romanzo, cambiano e non sono più ciò che erano, per quanto possano rimpiangere le azioni compiute o cercare di fortificarsi per quelle ancora da compiere.

Il finale è meno forte rispetto a quello degli altri volumi. Manca un po’ di epicità, forse perché gli stessi protagonisti ne escono meno bene, senza grandi vittorie ma con nuove preoccupazioni, ma da un punto di vista umano c’è da segnalare un momento estremamente toccante.

Per la resa dei conti finale c’è ancora tempo, nuovi volumi e nuovi problemi incombono sui sentieri lastricati di pugnali.

Un’ultima nota va dedicata alla traduzione. In questo romanzo Valeria Ciocci passa il testimone a Nello Giugliano, e i risultati si vedono. Scomparsi i passaggi oscuri, la lettura è diventata più scorrevole. Rimane purtroppo ancora alta la quantità di refusi presente nel testo.

Non resta che sperare che il primo passo avanti compiuto da Sergio Fanucci con la sostituzione del traduttore non rimanga un gesto isolato, ma che sia seguito da una maggiore cura nella realizzazione dei prossimi volumi.